Un'onda lunga che ha raggiunto il suo apice con partecipate manifestazioni in diversi Paesi del mondo e approdata in Italia a novembre col corteo di Roma con oltre 200mila presenze. Il movimento Non una di meno fissa il primo obiettivo, tra assemblee nelle principali città italiane e l'assenza dei grandi sindacati
8 marzo, le donne verso lo sciopero internazionale «Contro violenza, basta lavoro fuori e dentro casa»
Dalle mimose alla lotta per i diritti. È la sfida per il prossimo 8 marzo quando le donne – e non solo – italiane e di altre decine di Paesi del mondo hanno deciso di indire uno sciopero. Più che generale, perché l’obiettivo dichiarato è quello di non fermarsi soltanto dal lavoro fuori casa, ma anche da quello compiuto dentro le mura domestiche. Un lungo percorso che trova il suo apice nello scorso anno quando, dalla Polonia alla Turchia, passando per l’Argentina, in migliaia hanno manifestato in piazza contro regole più stringenti sull’aborto e contro la violenza sulle donne. Prima di loro c’era stato il caso, anche mediatico, di Yo decido in Spagna e, lo scorso mese, le proteste contro il sessismo del nuovo presidente Donald Trump negli Usa e quelle in Russia per la depenalizzazione della violenza domestica. In mezzo, l’Italia, dove a novembre dello scorso anno almeno 200mila donne e uomini hanno sfilato a Roma durante il corteo Non una di meno, al grido di «Se toccano una, rispondiamo tutte». Slogan preso in prestito dall’Argentina, che a ottobre si era risvegliata con il corpo della 16enne Lucia Perez abbandonato davanti a un ospedale dopo essere stata torturata, stuprata e impalata.
E sempre dall’Argentina arriva l’impulso a uno sciopero dentro e fuori casa. «Se le nostre vite non valgono, smettiamo di produrre», dicono le donne sudamericane. «Secondo alcuni studi, negli ultimi 50 anni la divisione sessuale del lavoro domestico è rimasta a carico delle donne nonostante l’emancipazione fuori casa e viene percepito come qualcosa di associato all’essere donna. Una gabbia di genere», spiega Stefania Arcara, docente di Gender Studies a Unict e presidente del centro studi di genere Genus, intervenuta giovedì nel corso di un’assemblea di preparazione allo sciopero, nell’aula dell’ex monastero dei Benedettini intitolata alla studentessa Stefania Noce, uccisa dal fidanzato nel 2011. Un concetto ripreso e ampliato da una delle correnti del femminismo italiano, quella transfemminista queer che mette in discussione il binarismo sesso-genere e le etichette Lgbt abbracciando qualsiasi sfumatura e incrociando tutte le lotte per i diritti, anche su altre tematiche. «Hanno fatto notare come ci sia una matrice comune tra la violenza sulle donne e quella contro tutte le soggettività non eteronormate – continua Arcara – Siamo quindi di fronte non solo a una violenza di genere ma a una violenza del genere». Per questo la proposta è di scioperare dal genere in sé, «rifiutandosi di riprodurre la femminilità normativa». Che si tratti di fare le pulizie in casa o di abbandonare per un giorno il proprio posto da maestra, ruolo ricoperto per la quasi totalità da sole donne.
Se le nostre vite non valgono, smettiamo di produrre
E a proposito di lavoro, a pesare nell’iniziativa italiana sembra essere proprio l’assenza dei grandi sindacati. A organizzare infatti le attività della rete Non una di meno nelle principali città italiane sono i centri antiviolenza – a Catania il centro Thamaia – della rete Dire, insieme alla rete IoDecido e all’Udi. Ma se a livello sia nazionale che locale il gruppo ha incassato l’appoggio dei sindacati Cobas e Usb – a cui è stato chiesto di unificare l’8 marzo lo sciopero del settore scuola previsto per il 17 dello stesso mese -, da Cgil, Cisl e Uil si è registrato il silenzio. L’organizzazione, però, va avanti con assemblee e incontri, il prossimo in questi giorni a Bologna. Con tavoli tematici come quelli a cui hanno partecipato 1500 donne a Roma, il giorno dopo la manifestazione. Il tutto, comunque, tra le difficoltà quotidiane.
A parlarne in assemblea è Marica Longo, volontaria del centro antiviolenza etneo Thamaia, che fornisce alcuni dati. «Nel 2016 sono state uccise 118 donne. In Italia, negli ultimi dieci anni, sono state 1.740 – sciorina – E se si va indietro fino al 2000, anno record con 199 femminicidi, il dato sale addirittura a 2800 casi». L’altra faccia di queste cifre è il mancato sostegno economico ai centri antiviolenza, nonostante nel 2013 la legge abbia previsto dieci milioni di euro all’anno. Di questi, alle regioni sono arrivati 16 milioni tra 2013 e 2014 e negli ultimi due il conto è pari a zero in attesa che vengano erogati in una unica soluzione. A mancare, conclude Longo, è una vera applicazione del «piano d’azione nazionale contro la violenza sessuale e di genere approvato nel 2015 con 40 milioni di euro previsti – spiega – Ad oggi ne sono stati spesi appena seimila». Una situazione che al Thamaia conoscono bene: a dicembre il consiglio comunale etneo ha negato al centro lo stanziamento di 30mila euro con l’astensione di 19 consiglieri e un voto contrario. Ma «se le istituzioni rimangono silenti, noi non staremo a guardare», conclude Longo. A cui fa eco Maria Giovanna Chiavaro delle Rivolta pagina, che guarda all’obiettivo di questo nuovo 8 maggio internazionale: «Noi abbiamo la città e l’amministrazione che abbiamo, ma il mondo è più grande di Catania».
Ecco le sigle e i singoli che, a oggi, aderiscono allo sciopero etneo:
Associazione Thamaia Onlus; Genus, Centro Studi di Genere Università di Catania; Lila Catania; Chiesa Evangelica Valdese di Catania e Chiesa Cristiana Evangelica Battista – via Capuana Catania; RivoltaPagina; Rebeldesse Catania; Cobas; Serena Maiorana, Graziella Priulla, Arcigay di Catania, Patrizia Maltese, associazione SEN, USB – Unione Sindacale di Base, Queers.