“Venuto al mondo”, una Sarajevo tinta di rosso

Un amore profondo, quello tra Gemma e Diego, sbocciato a Sarajevo durante le Olimpiadi del 1984: parte da qui la scrittrice Margaret Mazzantini, irlandese di nascita e moglie di Sergio Castellitto, attore italiano di successo, nel suo ultimo lavoro “ Venuto al mondo”. Una storia d’amore e di guerra presentata lo scorso lunedì al Cortile Platamone nell’ambito della rassegna “Libri in Cortile”, organizzata dal teatro Stabile di Catania.

Gemma è una donna decisa e composta che conduce una vita ordinaria, Diego un fotografo di pozzanghere, scapestrato e magro da far paura. A farli incontrare è Gojko, poeta bosniaco che commercia yo-yo, lo stesso che dopo sedici anni disturberà la quiete della protagonista e del figlio catapultandoli sull’irta strada di ricordi dolorosi. Gemma si affannerà a trovare un senso: una razionale spiegazione a quell’amore vissuto giorno per giorno con il cuore in gola e che, nonostante il tempo passato, rivive ancora negli occhi del figlio Pietro, voluto fortemente da entrambi, cercato nelle salette grigie di ospedali e di assistenti sociali dediti alle pratiche di adozioni. Un percorso doloroso, come il travaglio di una donna gravida, in cui Gemma sfida il destino che ha attaccato al suo petto il cartello di donna sterile.

Ma la trama non narra solo la battaglia di due coniugi affamati dei sorrisi e dei pianti di un bebè, si sposta su un altro terreno, lo stesso su cui si incontrarono per la prima volta. Sono passati molti anni da allora e Sarajevo non è più la stessa: i bombardamenti di Zagabria, Zara e Dubrovnik le hanno succhiato via la speranza di rivalsa che si respirava durante i folli preparativi del 1984.  E neanche Gemma e Diego sono più gli stessi: lei incattivita dalla sterilità, lui ormai indifferente; ma Aska li resuscita. La musicista, fan di Janis Joplin e amica di Gojko, si offre di accoppiarsi con Diego in cambio di denaro. Gemma accetta la proposta della sarajevita, ribattezzata con l’appellativo di “pecora” per via della folta chioma rossa. La musicista e il fotografo scelgono una locanda ai piedi di Trebevic per il loro incontro, mentre Gemma li guarda salire per le scale che, a loro insaputa, li condurranno all’inferno.

Dopo poche ore, infatti, la città viene assediata: spari e lanci di granate sventrano la locanda. Era cominciato l’assedio di Sarajevo. Diego torna da Gemma dopo tre giorni e insieme rientrano in fretta in Italia, decisi a dimenticare tutto. Ma il fotografo di pozzanghere non ha ancora dimenticato i volti dei diavoli che scrutavano Aska sul pavimento freddo della stanza: ritorna in trincea per combattere non solo quella guerra, ma anche la battaglia che aveva ingaggiato contro se stesso. Gemma lo seguirà quasi fino alla fine, anche quando crederà di averlo perso a causa di Aska, gravida del loro veloce amore consumato in quella locanda durante l’assedio.

Tuttavia Diego non ha intenzione di fare soffrire la moglie, perché ha ben altro per la testa stordita dalle granate. Ha una missione da compiere, un disegno divino da realizzare e sua moglie è la chiave, la traghettatrice che lo aiuterà a togliere Pietro – ancora sporco di placenta – dalla storia di Sarajevo 1992 per metterlo al mondo.

Una trama coinvolgente che spinge a leggere con il magone in gola e tutto d’un fiato. Una narrazione diretta, asciutta e a volte anche crudele, tanto da sembrare scritta da un uomo. A tratti ripetitivo in alcuni dei ventuno capitoli, la pedanteria dell’autrice nel descrivere ogni piccolo particolare, lasciando poco spazio all’immaginazione del lettore, annoia e sfinisce. Le metafore poi sono un espediente che non sempre produce gli effetti desiderati, una serie di parole pompose per dipingere stati d’animo e sensazioni che sarebbero arrivati più in fondo al cuore del lettore, se fossero stati scritti con più semplicità.

La storia della guerra serbo-bosniaca degli anni novanta però, resuscitata e ripescata nel dimenticatoio dei media, convince anche il lettore più esigente che vale la pena di leggere, per non dimenticare la violenza dei diavoli cetnici e gli stupri di cui furono responsabili. Ma anche per ricordare donne e uomini che fuggivano dalle granate, sorreggendo con una mano i loro figli e con l’altra le braghe cadenti. Le vittime di quell’inferno parlano attraverso la narrazione di Margaret Mazzantini e, se è vero per molti che forse la riesumazione di un evento così tragico potrebbe essere una furberia dell’autrice legata a un maggiore e facilitato boom di incassi, è altrettanto veritiero e percepibile il suo messaggio non banale e il coraggio con il quale questo romanzo, alla fine, è venuto al mondo. 


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