Sono innocente, su Rai Tre il caso di Maria Andò In cella per errore, un inferno «dal quale non esci più»

«Prima di realizzare cosa è successo sono passate almeno 24 ore. Non si dorme, non si riesce a credere di trovarsi davvero in quella situazione e quelle poche volte che riesci a prendere sonno il risveglio è terribile: ti rendi conto che non è un incubo. Sei davvero in carcere». Mentre l’ascolti, non sembra una storia vera. La mente non riesce a credere che sia un fatto reale, qualcosa che possa accadere davvero a qualcuno. Eppure Maria Andò, palermitana, ad appena 22 anni, un giorno ha sentito suonare il citofono, mentre era a casa, «un suono familiare, normale», ma questa volta dietro la porta non c’era un amico, il fidanzato o un parente ma i carabinieri con un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per rapina e tentato omicidio. Era un mercoledì come tanti, il 13 febbraio del 2008. Dai libri – studiava giurisprudenza – a una cella del carcere Pagliarelli. Nove giorni di inferno.

Un errore giudiziario, è stato accertato poi. Ma una parte di lei, Maria, l’ha lasciata lì: «Una volta che sei entrata in contatto con quel mondo non ne esci più». La sua storia l’ha raccontata diverse volte, ma continua a farlo quando le si presenta l’occasione, anche se le procura dolore: «Perché quello che è successo a me non capiti ad altri. Per invitare i magistrati a fare più attenzione, a leggere attentamente le carte prima di firmare provvedimenti come quello che ha riguardato me». Ne ha parlato ancora una volta a Sono Innocente, la nuova trasmissione in onda su Rai Tre.

Un arresto avvenuto nei confronti di un’incensurata. «Il reato è stato commesso a fine agosto 2007. Mi hanno arrestata dopo sei mesi, se avessi voluto reiterare il reato l’avrei potuto fare, se avessi voluto scappare all’estero l’avrei potuto fare e se avessi voluto inquinare le prove l’avrei potuto fare. Quindi non si è capito perché questa misura cautelare», afferma. Tra l’altro l’aggressione della quale era accusata era avvenuta a Catania, un posto dove «non ero mai stata», eppure è finita in manette. Un uomo, un tassista, era stato derubato e picchiato da una coppia di giovani – poi identificati come due clochard – e lasciato in fin di vita. L’uomo avrebbe poi riferito che si trattava di due ragazzi che aveva preso a cuore, a cui dava da mangiare. Una sim card regalata dalla sorella di Maria Andò, Federica, al suo fidanzato – oggi marito – che faceva il militare a Catania, sarebbe stata il collegamento che ha portato Maria dietro le sbarre. Uno scambio di persona. «Hanno scritto che la ragazza autrice dell’aggressione mi somigliava: l’unica cosa che avevamo in comune era che nella foto del documento di identità avevo i capelli lisci come lei».

«In carcere c’è solidarietà tra le detenute – ripercorre – la prima sera la mia compagna di cella mi ha fatto il letto ‘perché qui si usa così’ e mi ha detto anche come funzionavano le cose». Ad uno ad uno sfilano i ricordi di quei giorni: il rifiuto di fare l’unica doccia, il rifiuto dell’ora d’aria al mattino: «Avevo paura di tutto». Le visite dei familiari che rinunciano a vederla per dare priorità all’incontro con gli avvocati, l’ora d’aria pomeridiana: carte e ping pong. Lei sempre in cella. La solitudine e il timore che qualcosa di brutto possa succedere all’improvviso. Una sensazione che Maria si porterà dietro per molti anni. Il nono giorno la scarcerazione. «La secondina arrivò per dirmi di prendere le mie cose, perché sarei uscita da lì. Non sono riuscita a fermare le lacrime. Un fiume in piena».

Le foto della festa dei quarantanni dello zio alla quale si trovava la sera in cui a Catania il tassista veniva aggredito e la testimonianza di una collega universitaria e di sua madre, dalla quale lei si trovava il pomeriggio di quel giorno oltre che, l’arresto di uno dei due autori del reato, hanno permesso a Maria di ritornare alla sua vita, anche se da quel momento nulla è stato come prima. Oltre ad aver dovuto «spendere soldi che non hai, e quindi subire un danno economico non indifferente, ti resta dentro una ferita che non si sana. Quello che ho vissuto lo rivivo con le stesse sensazioni ogni volta che racconto quello che è successo. Tutto amplificato dal fatto che adesso sono mamma, e ho la consapevolezza che quello che è accaduto a me, può capitare a chiunque».


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Parla la donna vittima di un errore giudiziario, arrestata nel 2008 e portata in carcere con l'accusa di rapina e tentato omicidio a causa di uno scambio di persona. «Una ferita che non si sana, una sensazione amplificata dal fatto che adesso sono mamma, con la consapevolezza che quello che è successo a me, può succedere a chiunque»

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