Nicola Piovani ha presentato al monastero dei Benedettini di Catania Il demone meschino, trio da camera ispirato allomonimo romanzo di Sologub. Step1 non sè lasciato sfuggire loccasione per incontrare il maestro e parlare con lui del mestiere del compositore e del difficile rapporto tra larte e le esigenze del mercato
La resistenza di un poeta
A chi gli chiede com’è il suo rapporto con il mondo accademico, Nicola Piovani risponde «Pessimo», a partire dall’idea stessa di fare “lezione”: «È una parola che mi mette soggezione – spiega il musicista premio Oscar – perché insegnare è un arte che non mi appartiene. Quando tengo dei corsi e dei seminari al Conservatorio, posso solo mettere a disposizione la mia esperienza artigianale, da bottega del musicista, guadagnata nel corso della mia carriera». Una carriera lunga, iniziata con la composizione delle musiche che accompagnavano i cinegiornali nel ’68 e proseguita attraverso le colonne sonore di più di 140 film e 60 spettacoli teatrali.
È proprio il continuo coniugare musica e teatro il tratto distintivo di questo artista che ha presentato all’Auditorium del monastero dei Benedettini, sede dell’Università, “Il demone meschino”, un trio da camera ispirato all’omonimo romanzo di Fëdor Sologub.
Le parole di Piovani si mischiano a quelle del romanzo, letto in alcune parti dall’attrice catanese Mariella Lo Giudice, per raccontare la storia di Peredonov, il protagonista. «Quello che mi ha colpito, che mi ha atterrito, è il suo essere assolutamente privo di passionalità, di ogni emozione positiva – dice Piovani – un personaggio così oscuro da ricacciare via qualsiasi valore di vitalità. Ho provato a buttare sul pentagramma questo senso di vuoto e soffocamento che mi davano quelle pagine». Un brano che non illustra un romanzo ma ne racconta le emozioni scaturite dalla sua lettura, un brano che il compositore definisce “autobiografico”: «Nella mia musica c’è l’intenzione di raccontare l’atto di entrare in una persona così spenta e vuota, il trovarsi davanti una simile piattezza emotiva e viverla come un’assenza».
Dalle emozioni della lettura è nato quindi un brano di musica “pura”: «La musica pura nasce dal desiderio – spiega Piovani – diverso dalla voglia o dal capriccio, è un’esigenza profonda ed intima di comunicare. È trovarsi davanti al foglio bianco liberi di ogni schema. Il desiderio è quel qualcosa che se non lo segui, rischi di fare la fine di Peredonov». Alla musica pura, Piovani contrappone quella “funzionale”: «Una musica che nasce per un’occasione, viene commissionata come una volta si faceva nell’ambito della pittura. Se guardiamo alla storia, più della metà delle opere create è di tipo funzionale, da quelle religiose a quelle scritte per celebrare incoronazioni o altri eventi». Scrivere su commissione, però, ha i suoi limiti: «L’artista si ritrova dentro un perimetro dal quale non può uscire ma deve comporre e muoversi lì, dentro la poetica dell’autore per cui lavora».
L’incontro con Nicola Piovani – organizzato dai Circuiti culturali d’Ateneo in collaborazione con la facoltà di Lettere e Filosofia e l’associazione culturale Darshan – diventa un’occasione per dialogare con il pubblico. Piovani ascolta e risponde, parlando pure di rock: «È stato uno dei fenomeni più importanti della seconda metà del Novecento – dice – e ci sono artisti come i Queen, i Radiohead o i Beatles che sono e sono stati dei grandi musicisti. Il punto più “opaco” di questo genere, così come per il pop, è la critica che, seppur presente, parte dal principio sbagliato del successo: chi vende di più è più bravo. Purtroppo il mercato ha bisogno di numeri, di quantificare tutto».
L’idea del successo è il vero problema, secondo l’artista romano: «Una cosa è ambire a realizzare una musica che ti rappresenti, un’altra è il desiderio di successo che fa parte della vanità di tutti. Ma scrivere pensando a questo è soffocante». Rivolgendosi ai giovani, Piovani ha consigliato di puntare tutto sulla lealtà: «È una qualità che per chi fa il “poeta”, sia un musicista, uno scrittore, un pittore, vuol dire comunicare con sincerità quello che proviamo, e trovare il linguaggio migliore per farlo». Proprio sul linguaggio musicale, Piovani dice di non credere alla sua evoluzione: «Non penso che gli autori contemporanei siano l’evoluzione di quelli del passato. Il linguaggio deve necessariamente cambiare perché i poeti devono raccontare il presente, i sentimenti che vivono, il mondo che li circonda. Forse oggi la musica è meno bella, rispetto a brani come “la 111” di Beethoven per esempio, ma in fondo non importa».
Il finale del romanzo, letto ancora una volta da Mariella Lo Giudice, precede l’entrata in scena del Velke Trio – composto da Valentina Caiolo al violino, Elena Sciamarelli al violoncello e Ketty Teriaca al pianoforte – per l’esecuzione de “Il demone meschino”.
La presentazione del trio dà lo spunto a Piovani per un’ultima osservazione: «Le musiciste si stanno preparando – racconta – hanno accordato gli strumenti, sentono i battiti del cuore aumentare e si stanno concentrando per dare il meglio di sé non per un disco ma per un pubblico, per voi. C’è qualcosa in questo modo di fare musica e teatro di miracoloso, qualcosa che sopravvive e che io chiamo “resistenza”, qualcosa ormai trascurata dalla cultura egemone che pensa solo ai numeri e alle classifiche».
Poi il silenzio. Poi la musica.