La famiglia di Murad Al Ghazawi - arrestato a Pozzallo nel 2015 - ha consegnato ai legali del ragazzo il suo passaporto. Che proverebbe l'uscita già nel 2013 dalla Siria: Paese, insieme all'Iraq, in cui solo dopo si è autoproclamato lo Stato islamico. La prova finirà nel processo affidato alla Corte d'assise di Catania
Andrà a giudizio per terrorismo il migrante siriano «Ma era già scappato prima della nascita dell’Isis»
Manette ai polsi e scortato da sei agenti. Dopo sei mesi è tornato a Catania per essere rinviato a giudizio con l’accusa di essere un
terrorista dello Stato islamico. Si tratta di Murad Al Ghazawi, il giovane siriano sbarcato a Pozzallo il 4 dicembre 2015 e accusato dalla procura di Catania. A decidere l’inizio di un processo a suo carico è stato il giudice per l’udienza preliminare Giancarlo Cascino che, dopo un’udienza a porte chiuse durata circa 50 minuti, ha declinato la richiesta del rito abbreviato proposta dall’avvocato Vittorio Platì, del foro di Catanzaro. Il processo passerà così alla Corte d’assise che dovrà vagliare tutte le prove a carico dell’uomo. Un lungo elenco di contestazioni sulle quali pesano tante ombre, a partire dal nome. L’imputato si chiama Murad Al Ghazawi ma per la giustizia italiana è registrato come Mourad El Ghazzaoui. Un problema che sarebbe nato durante le procedure di identificazione al centro d’accoglienza di Pozzallo dove gli interpreti – probabilmente non madrelingua siriani – hanno trascritto il cognome del ragazzo in modo diverso innescando una serie di errori a catena.
A occuparsi della sorte dell’uomo, che per il momento è l’unico migrante arrivato in Italia con un barcone ad essere accusato di terrorismo, è anche
l’avvocato etneo Giovanni Cavallaro. Come racconta lui stesso ai microfoni di Radio Radicale, il legale ha ricevuto il mandato difensivo direttamente della famiglia di Al Ghazawi, arrivata in Italia dalla Libia insieme al giovane e poi trasferitasi in Germania dopo l’arresto del parente. «Sono stato contattato da loro per seguire la vicenda – spiega Cavallaro – ma ho avuto difficoltà anche a capire dove fosse detenuto perché neanche la stessa famiglia lo sapeva». L’indiziato, come rivelato nei mesi scorsi da MeridioNews, line-height: 1.6em; background-color: initial;”> si trova detenuto a Rossano Calabro in un carcere dove vengono tenuti dietro le sbarre accusati di terrorismo e condannati in via definitiva per mafia. Un penitenziario ribattezzato «la Guantanamo d’Italia», dove i diritti alla difesa verrebbero in parte violati. «Gli avvocati possono parlare con i loro clienti soltanto due giorni a settimana per due ore – prosegue Cavallaro – Quando sono andato lì, il colloquio con il mio assistito si è svolto nella sala degli incontri con i familiari, alla presenza degli agenti della polizia penitenziaria».
E d’altronde si tratta dell’unica visita che il giovane siriano ha potuto ricevere finora. «La famiglia non lo vede dal 4 dicembre 2015 – continua Cavallaro – Nonostante l’autorizzazione del giudice, l’istituto ha respinto la mia richiesta dicendo che ci sono delle differenze tra il nome di Al Ghazawi e quello dei suoi familiari e che servono delle certificazioni di parentela». Il solito problema della trascrizione effettuata a Pozzallo e che non rispecchia i dati contenuti nel
passaporto del ragazzo. Documento che fornisce anche un altro importante elemento: Murad Al Ghazawi avrebbe lasciato la Siria nel 2013, ben prima della nascita dell’Isis e del suo insediamento in territorio siriano. In questi tre anni avrebbe viaggiato attraverso l’Egitto, per poi arrivare in Libia e, da lì, in Italia.
E a proposito di passaporti, tra i documenti finiti sotto sequestro dopo lo sbarco – e che finiranno nelle mani dei giudici etnei – ci sarà anche il
presunto passaporto dello Stato islamico. Il documento spacciato dai quotidiani La Repubblica e La Sicilia come una sorta di lasciapassare per terroristi, prima prova dell’esistenza della burocrazia del Califfato nero. In realtà si tratta di un fotomontaggio: uno scherzo che gira da anni sul web, come scritto da MeridioNews e accertato, solo successivamente, dalla polizia giudiziaria. «C’è stata una delega per approfondire la natura di questo foto trovata nel cellulare di Al Ghazawi – spiega l’avvocato Platì – e in una nota è stato scritto che, come sollevato da fonti giornalistiche, probabilmente si tratta di una bufala». E non di una prova determinante, com’era stata inizialmente definita. Della vicenda si è occupato anche il parlamentare Pd Giuseppe Berretta con un’interrogazione ai ministri dell’Interno e della Giustizia.