Carla Piattelli è stata ritenuta colpevole dal Tribunale antidoping per non aver presentato, a una gara amatoriale di nuoto, il certificato che attestava l'assunzione di un medicinale salvavita contro il cancro. Adesso le hanno dato due mesi di sospensione e l'hanno obbligata al pagamento delle spese processuali
Doping, condannata atleta etnea per antitumorali «Non so se avrò coraggio di gareggiare ancora»
«Era quello che mi aspettavo, ma mi dispiace comunque. Penso che ci fossero molti modi per trattare questa cosa, il Coni probabilmente ha scelto il peggiore». Carla Piattelli è stata condannata dal Tribunale nazionale antidoping a due mesi di sospensione (a partire dal 31 gennaio 2016) e al pagamento di quasi 400 euro di spese processuali. Era stata accusata di aver preso sostanze dopanti senza dichiararlo nel corso dell’ultimo trofeo sant’Agata, una manifestazione sportiva amatoriale che si è tenuta l’ultimo giorno del gennaio di quest’anno. Ma ciò che hanno trovato nel suo sangue, in realtà, altro non era che il contenuto dei medicinali che Piattelli prende dal 2013 per combattere il cancro al seno. «Non mi hanno condannata per doping, ma per la mancanza del certificato che attestava che dovevo prendere quelle medicine – chiarisce la sportiva – Come ho spiegato, non sapevo che si dovesse portare e probabilmente la punizione avrebbe potuto essere anche più lieve. Invece così non è stato».
A febbraio 2016 una nota del Comitato olimpico nazionale italiano comunicava alla stampa che quattro nuotatori e nuotatrici catanesi erano stati sospesi con l’accusa di aver fatto uso di sostanze dopanti nel corso della gara di livello master del trofeo intitolato alla santa patrona etnea. Una competizione non agonistica che si è tenuta alla piscina comunale di Nesima e alla quale si sono presentati i medici della Nado, l’organismo indipendente che si occupa di vigilare sul corretto comportamento degli atleti. Tutti gli accusati catanesi si sono difesi dicendo di non essere a conoscenza dell’obbligo di presentare il Tue, therapeutic use exemptions, un certificato che attesta la necessità per lo sportivo di prendere un farmaco le cui tracce sarebbero state segnalate dagli esami del sangue.
Tra i globuli rossi di Carla Piattelli c’era anche un inibitore degli estrogeni, una sostanza salvavita per la donna – 52 anni, docente di Informatica all’istituto Marconi di Catania – che ha subito una mastectomia totale per sconfiggere il tumore che le è stato diagnosticato tre anni fa. «Dopo la sospensione cautelativa – racconta adesso Piattelli – sono stata collaborativa al massimo: ho presentato la documentazione del centro oncologico e in pochissimi giorni ho prodotto il certificato che mi è stato richiesto. Mi sono assunta la mia colpa, quella di non sapere di doverlo portare, sin da subito. Ho sbagliato e l’ho riconosciuto, ma bisognava proprio arrivare fino a questo punto?». I due mesi di sospensione che le hanno comminato sono già stati scontati. Ma a quelli se ne sono aggiunti almeno altri tre, quelli che sono passati prima che le arrivasse la comunicazione da parte del tribunale sportivo. «Non ho gareggiato e sono riuscita ad andare a vedere i miei amici solo una volta – spiega – Poi non me la sono più sentita: era come se fossi in punizione per qualcosa che non avevo fatto. È stato difficile non potermi godere un momento di svago e di gioco, che per me era sempre stato liberatorio».
E non solo. «Sono sempre stata una sportiva, ma dopo il cancro ho usato la mia attività per dimostrare a tante persone che si può continuare, che si sopravvive e che si lotta». Voleva dare l’esempio, lo stesso che aveva ricevuto da altri e altre che hanno sconfitto la malattia e sono tornati in pista. O, come nel caso del nuoto, in acqua. «Per me è stato massacrante. Credo di averla vissuta così perché la piscina era la mia dimostrazione di forza, il modo che avevo trovato per raccontare la mia storia agli altri, sperando che fosse d’ispirazione». Adesso, invece, «non so se avrò mai il coraggio di fare un’altra gara: l’idea che un momento bello ti possa costare tutto questo mi atterrisce». A supportarla in questi mesi sono stati tanti sportivi, «anche campioni nazionali e internazionali», che però difficilmente hanno scelto di esprimersi in pubblico: «Quando chi fa sport parla di doping ha paura – spiega Carla Piattelli – La gente non riesce a distinguere, se difendi qualcuno che è accusato di essersi dopato allora passi per quello che non vuole i controlli chissà per quale motivo».
«Tra quelli che sono stati sospesi con me, il mio è stato l’ultimo processo», dice la nuotatrice. Avrebbe potuto chiedere di essere giudicata più in fretta, ma ad aprile ha dovuto subire l’ultimo intervento chirurgico legato alla sua malattia. «Dopo un mese che mi è servito per recuperare, sono andata a nuotare tutti i giorni – ride – Adesso sto benissimo, sono sana e forte». Ma le competizioni potrebbero essere un capitolo chiuso, «per paura che possa succedermi qualcosa del genere ancora». La critica, però, non va all’indirizzo dei medici che hanno fatto le analisi o della procura sportiva che ha mandato avanti le indagini. «È il sistema che è sbagliato – conclude – Per un certificato che non c’è non serve affrontare un processo. Basta una multa. E basta anche un po’ di flessibilità: non mi sembra bello quello che mi hanno fatto, non mi sembra un gran lavoro quello del Coni, soprattutto se capisci le condizioni di una persona».