Un sequestro di 35mila chili di ortaggi e la chiusura dell’azienda per irregolarità. Il titolare della Incar Fruit si difende parlando di prassi comune in quell'angolo di Sicilia. Secondo un piccolo produttore, però, «spesso per rispettare i contratti con la grande distribuzione» si accetta di tutto
Vittoria, merce non tracciata e «colpe del sistema» Dal piccolo produttore alla grande distribuzione
Durante l’ispezione delle forze dell’ordine, Andrea Incardona avrebbe scaricato le colpe sul «sistema». «Così fanno tutti», avrebbe dichiarato agli investigatori che gli hanno sequestrato 35mila chili di prodotti ortofrutticoli e sospeso l’attività. Lui, sostiene, si sarebbe limitato a confezionare la merce presente nel suo magazzino che avrebbe poi rivenduto; comprese le tonnellate di pomodoro, zucchine, cetrioli e finocchi non tracciati e di dubbia provenienza. Incardona è il titolare di Incar Fruit, un’azienda di lavorazione dell’ortofrutta che associa cento produttori e rivende alla grande distribuzione organizzata con marchio certificato made in Italy. «Mangia sano, mangia siciliano» è lo slogan pubblicitario presente nel sito internet della ditta, che ha sede a Vittoria.
Investigatori e associazioni del settore hanno più volte denunciato casi di tonnellate di ortaggi prodotti in paesi nordafricani ma venduti come provenienti dalla fascia trasformata (l’area che si estende da Pachino a Licata con centro Vittoria). Pomodori, melanzane, zucchine e cetrioli che, coltivati al di fuori dei confini, e spesso delle norme, dell’Unione Europea, non rispetterebbero gli standard di qualità, di sicurezza, e costerebbero molto meno.
Intervistato al telefono, l’imprenditore è fiducioso: «Aspettiamo il dissequestro. Io così mi mangio venti anni di lavoro, di nome». Agli investigatori che hanno chiuso la sua azienda avrebbe spiegato il meccanismo: i produttori trasportano la merce nel suo magazzino, senza documenti allegati; a lui il compito di etichettare e certificare la provenienza, sulla base dell’azienda produttrice. «Ho chiesto immediatamente a tutti i miei produttori di mandarmi la bolla e le certificazioni necessarie», ha concluso Incardona. Secondo l’imprenditore vittoriese, se la merce provenisse invece dall’estero, lui non avrebbe alcuna possibilità di saperlo, ma la contraffazione sarebbe opera dei produttori.
Un agricoltore di una piccola impresa (quasi la totalità del tessuto produttivo vittoriese è formata da Pmi), difende la categoria: «Noi siamo i piccoli: siamo al tracollo economico e oggi non abbiamo neanche la liquidità per operazioni del genere – spiega nell’anonimato -. Il prezzo è così basso che non guadagniamo vendendo ciò che produciamo. Perché farci noi stessi la concorrenza acquistando all’estero? Trentamila chili poi sono tanti per un singolo produttore truffaldino». Secondo uno degli investigatori impegnato nelle indagini sulla filiera agricola, «la merce spesso viene introdotta dal Marocco, dalla Tunisia o anche dall’Albania (probabilmente prodotta in Turchia) e viene confezionata qui». Ma finisce mischiata perché spesso anche i produttori locali conferiscono in magazzino senza bolla. «Gli imprenditori ci stanno – continua l’agricoltore – perché se non prendono la merce anche senza bolla, rischiano di non rispettare i contratti che sottoscrivono con la grande distribuzione e vengono tagliati fuori dal mercato. Così invece possono mischiare».
Una prassi troppo comune in un regime economico già viziato da organizzazioni criminali e oligopoli economici. «Con questa mentalità è impossibile accorgersi del danno fatto all’intera filiera – commenta l’agricoltore Maurizio Ciaculli, vittima di intimidazioni e ritorsioni dopo aver denunciato l’illegalità nel comparto agricolo -. Così si scavalcano, come fanno in molti, le normative che impongono la tracciabilità del prodotto. I rischi poi sono anche per il consumatore che non sa cosa mangia. E si colpiscono i produttori, ormai sul lastrico».