Il documentario Didyme, proiettato nel 2007 e ora finalista al Festival della Biodiversità di Roma, è un esempio dello stile della giovane regista catanese premiata a Bari. «Evito sempre di piegare la realtà alle mie idee e ai miei propositi. Quando faccio un documentario non intendo dimostrare, bensì mostrare»
«Promuovere Salina? Ho preferito raccontarla»
Sonia Giardina lavora da anni tra Italia e Francia come regista e critico cinematografico. La prima proiezione del documentario “Didyme” (45′) è stata per la sezione “Documentiamoci” del Salina DocFestival 2007. Le chiediamo di raccontarci la sua esperienza.
Sonia, di cosa parla il tuo documentario?
Nell’isola di Salina, alcuni abitanti proseguono antiche tradizioni e vecchi metodi di produzione della malvasia, dell’olio e del cappero. Di fronte allo sviluppo della tecnologia moderna e alla crisi del settore ittico, si delinea un complicato intreccio tra vecchio e nuovo, tra memoria e presente.
Quale messaggio lancia “Didyme”?
E’ l’antico nome dato dai Greci all’isola, significa infatti “gemello” e si riferisce alla particolare forma di Salina: due monti poggiati sul mare. Abbiamo scelto questo titolo perché ci sembrava significativo del conflitto tra passato e presente, raccontato attraverso la quotidianità di alcuni isolani, documentando il divenire di un mondo che sta scomparendo.
Sembra cucito su misura per il Festival…
Io e Marco Insolia abbiamo iniziato le riprese a settembre 2006 per concluderle a maggio 2007. La nascita del documentario non ha nulla a che vedere col festival. All’inizio pensavamo di riuscire a proiettarlo ad agosto con l’appoggio dei tre Comuni dell’isola, ma all’unisono si sono tirati indietro con la motivazione che “il film non offre un’immagine turistica e quindi positiva di Salina”.
Cosa si aspettavano invece?
Una cartolina dell’isola, un video di promozione turistica con spiagge, ristoranti e mille strutture ricettive. Invece noi abbiamo escluso tutto questo dalle riprese perché volevamo raccontare un’altra faccia dell’isola dando la parola direttamente agli abitanti mostrando le difficoltà di questa gente, cosa per i sindaci alquanto sgradevole e poco promozionale.
E la gente del luogo aveva apprezzato il lavoro?
Tantissimo e ci ha anche aiutati. Tutti sapevano che volevamo documentare un patrimonio antropologico-economico-sociale che presto scomparirà.
Poi è arrivato il Festival…
Sì, un’occasione importantissima perché ci ha permesso di mostrare il film non solo ai protagonisti o a chi ha collaborato, ma ad un pubblico più vasto. Durante il Festival, abbiamo soggiornato a Salina (vitto e alloggio a carico dell’organizzazione). È stata una settimana molto ricca e interessante che mi ha dato non solo la possibilità di vedere dei documentari indipendenti che circolano solo nei festival, ma anche di conoscere e di confrontarmi con registi e critici cinematografici.
Ti è sembrato un festival meritevole?
Sì, molto. Perché vuole promuovere la cultura del documentario dando visibilità a film che, non entrando a far parte dei normali circuiti di distribuzione, rischierebbero di restare nell’ombra.
Parliamo del documnentario. Quali sono gli atteggiamenti del regista nei confronti dei soggetti? Da che cosa sono determinati?
Il mio atteggiamento è quello dell’ascolto al fine di comprendere il “conflitto” che travaglia i soggetti. In particolare m’interessa il rapporto che i soggetti intessono con la società e io cerco di pormi laddove ci sono gli “strappi”.
Come definiresti il tuo stile documentaristico?
Quando mi trovo davanti ad un fatto che voglio raccontare, evito sempre di piegare la realtà alle mie idee e ai miei propositi. Sono infatti lontana dal “film a tesi” o dal “cinema politico-ideologico” alla Moore, non perché non sia interessata alla tematiche sociali, anzi tutt’altro, giacché mostrare e raccontare il nostro presente e i disagi che affrontiamo è ciò che più mi sta a cuore. Ma apprezzo quel metodo di ascolto, tipico di Di Costanzo o Philibert, in cui si fanno emergere le contraddizioni profonde del mondo in cui viviamo senza per questo voler dimostrare una teoria e senza ricorrere a una voce off intesa come manifesto del regista e/o delle sue accuse. Quando faccio un documentario non intendo “dimostrare”, bensì “mostrare” – rigorosamente pensiero felliniano ndr – secondo il mio punto di vista, all’interno di un rapporto dialettico col reale. Questa è la capacità del cinema documentario che più mi affascina.
Quali opere prediligi?
Ho apprezzato molto “L’incubo di Darwin”, “L’anno di Rodolfo” e più recentemente “Primavera in Kurdistan” (Salina docfest 2007) che sono molto vicini al mio modo di concepire il documentario.
Anche quest’anno hai tenuto un Medialab all’università di Catania? Obiettivo?
E’ innanzitutto quello di realizzare un cortometraggio attraverso un’esperienza collettiva che fornisca le conoscenze di base per raccontare una storia in immagini. La partecipazione ai festival viene dopo: può rappresentare una soddisfazione per i corsisti, ma non una priorità.