Il silenzio stampa, l'etichetta di "finali" appiccicata alle partite che mancano alla conclusione del campionato: tutte tappe di una liturgia che non incanta più nessuno. Nel prossimo turno bisognerà battere l'ultima in classifica. Nello stesso stadio in cui, anni fa, ci si giocava la permanenza in A contro De Rossi e Totti
Il calcio Catania e la retorica della salvezza Dalle sfide con la Roma alla Lupa dei Castelli
E insomma, le ambizioni del Catania sembrano al momento queste: primo, battere la Lupa Castelli Romani, squadra cenerentola e un po’ apolide della Lega Pro, collocata da statuto nella fertile terra dei vini che ha nome Frascati, ma di fatto esiliata a Rieti, nella regione dei Sabini, unica terra al momento disponibile a fornirle uno stadio vuoto dove prendere a calci un pallone. Poi, naturalmente, sperare che non facciano risultato squadroni come il Monopoli, rivale dei rossazzurri nella corsa all’ultimo posto utile per non dover giocare i play out; e quindi vivacchiare come si può fino all’ultima giornata, alla caccia dei punti necessari per evitare di giocarsi la salvezza negli spareggi con le pari grado.
Pari grado che sono davvero tali – il campionato lo ha detto e ripetuto troppe volte – anche dal punto di vista del gioco. A dispetto della vistosa penalizzazione che dovrebbe sulla carta garantire che, sul campo, la nostra sia una squadra più forte di questi e di simili avversari. Il fatto che il Catania abbia raccolto sul campo dieci punti in più di quelli utili per la classifica non significa affatto, in verità, che esso sia più forte di questi avversari. Non foss’altro perché, tra quelli affrontati negli ultimi mesi, è difficile trovarne uno che in campo abbia corso meno del Catania; che abbia mostrato almeno la stessa pochezza di idee e di gioco che i rossazzurri hanno esibito nelle più remote province dell’Italia meridionale; o che lasci trasparire col suo atteggiamento di gioco un’indolenza paragonabile a quella con cui il Catania ha affrontato la gran parte di quelle che, nella retorica di questo tormentato fine stagione, era stata raccontata come una sfilza di finali da disputare tutte con il cuore dentro le scarpe e correndo più veloce del vento.
La stanca liturgia di fine stagione, intanto, continua a consumare i suoi riti. È già passato, per esempio, quello del silenzio stampa. Misura taumaturgica consacrata a talismano ai tempi dell’Italia di Bearzot, quella che affrontò tra i veleni i mondiali di Spagna e alla fine li vinse. Un pezzo di storia del calcio ripetuta chissà quante volte – ma ripetuta spesso sotto forma di farsa – nelle vicende di chissà quante formazioni in crisi di gioco e di risultati. Lunedì sera, sul campo del Foggia, la cosiddetta finale di questa settimana ha visto il Catania – rimaneggiato quanto si vuole – cedere ingloriosamente il campo a un avversario certamente più forte. Ma che non avrebbe dovuto esser tanto forte da arrivare al gol due volte, e da sfiorarlo almeno altrettante, passando dalla zona di campo da cui dovrebbe essere più difficile passare: e cioè dal centro della difesa, che gli uomini allenati da De Zerbi non hanno nemmeno dovuto sforzarsi ad aggirare lavorandoci ai fianchi. È bastato loro addormentare la partita, scrutare in faccia ai nostri i segni dell’incapacità di raddrizzarla, e poi colpirli con facilità dove, in teoria, le difese dovrebbero essere più stabili e più robuste.
Non abbiamo difesa. O meglio, forse, non abbiamo difese. Non ne abbiamo perlomeno noi, forzati al disamore per la squadra che ci accompagna dalla nostra infanzia, spettatori prima increduli, poi indignati, infine quasi rassegnati a troppi anni di declino in cui il calcio giocato ha ceduto a logiche aziendali non sempre facili da leggere. Logiche che oggi ci regalano una società in mano a un proprietario che ha altri problemi da risolvere. E appesa alla tenue speranza di danarosi salvatori spuntati da chissà dove, di cordate benedette dal primo cittadino, di eventi al momento imprevedibili che ne disegnino un destino diverso da quello che va maturando sui campi della Lega Pro. Una categoria che all’inizio della stagione qualcuno sperava ancora di poter affrontare come un Purgatorio necessario, faticoso ma di breve durata. E che invece oggi ci riduce a sperare – con convinzione non del tutto ferma – di poterci almeno restare.
Salvare la categoria: era l’obiettivo dignitoso dei nostri primi anni di serie A, quando una salvezza avventurosa – come fu quella conquistata nel 2008 giocando con la Roma – era un giorno di festa che faceva correre felici perfino noi tifosi, per una volta l’anno, sul prato del Massimino; e poi della brutta ma in sé tollerabile stagione che l’anno scorso c’era toccata in serie B. È diventato il nostro obiettivo in Lega Pro, e manco sappiamo fino a che punto la nostra squadra sia attrezzata per raggiungerlo.