Un giornalista e filmaker denuncia il disastro ambientale e umanitario della località industriale non lontano da Belgrado. Chiamando in causa il premio Nobel Al Gore
Antonio Martino ‘Con Pancevo racconto la mia verità sui Balcani’
Antonio Martino, laureato al Dams, giovane regista indipendente, inizia la sua carriera trattando tematiche difficili. I suoi documentari d’inchiesta gli valgono vari premi, Gara de Nord (racconta la storia dei bambini che vivono nelle fogne di Bucarest) gli fa vincere nel 2007 il Premio Ilaria Alpi.
Il tuo stile?
«La mia tecnica di produzione è molto legata all’evoluzione delle tecnologie digitali: avere delle telecamerine potenti, ma piccole, riuscire a montare un film in casa, tutto ciò è essenziale. I miei film sono costati davvero poco, intorno ai 300 – 400 euro».
Perché sei andato in Serbia a girare questo tuo recente documentario?
«Pancevo conclude una trilogia, la trilogia dell’Est, il cui punto centrale è il rapporto tra l’uomo e l’ambiente. Volevo realizzare ancora una volta un film di denuncia ambientale. Sono andato a Belgrado, dove a 15 km dal centro mi sono imbattuto nella realtà di Pancevo, dove mi sono reso conto che i Serbi erano vittime e non boia. E lì ho detto: c’è il film!»
Quanto tempo sei stato là?
«Venti giorni ci sono voluti per conquistare la fiducia dei serbi, diffidenti perché pensano che tutti i giornalisti li descrivano sempre come carnefici, passeggiando per il luogo e respirando quell’aria scadente, dopodiché hanno iniziato a raccontarmi i fatti e in due giorni ho girato il film».
Cosa succede a Pancevo?
«Si registrano altissimi livelli di sostanze inquinanti. Muore in media una persona al giorno e ogni quindici minuti entra in ospedale un bambino con problemi respiratori. Alla Rai però questa storia non interessa. Sono in trattative col Manifesto».
Come lo racconti?
«E’ un film non solo giornalistico, di denuncia, ma ha anche una base emotiva molto forte, ultima tendenza dei documentari di oggi. Questo perché è cambiato il panorama dei media e ognuno fa la sua piccola informazione non solo lavorando sulla verità giornalistica, ma anche su quella emotiva della gente. Sono consapevole che sulla Serbia non ci sia un’unica verità, io infatti ho portato la mia verità: cioè che i Serbi non hanno nessuna colpa, che la guerra è stata orchestrata ad hoc e che Al Gore è un guerrafondaio… che ha bombardato le fabbriche chimiche della città. Altri non la pensano come me, liberissimi di farlo».
Quindi hai scelto di fare il film-maker per raccontare la tua verità?
«Sì, principalmente e poi l’ho scelto per una questione di vocazione artistica. Non sono solo un giornalista. Lo faccio perché ho una sensibilità di fondo alla realtà che mi circonda e lo faccio per passione dato che ancora non ho guadagnato un granché. Ai giovanissimi film-maker di oggi dico: è possibile sganciarsi da quel narcisismo di fondo legato al cinema (regista, autore ben delineati) lavorando ad un progetto collettivo; credere nelle nuove tecnologie digitali e credere che si possano lanciare dei messaggi forti con pochi fondi; basarsi sui contenuti, senza essere per forza assoggettati a case di produzione o a reti televisive. Il Volcano Film Festival convalida la mia teoria: oggi il cinema è fatto in casa. E se non prendiamo soldi da qualcuno possiamo dare un’informazione anche più pulita».
Quale lavoro tra i film (in e fuori concorso) ti ha entusiasmato di più?
«Cover Boy*, di Carmine Amoruso girato tra la Romania e l’Italia. Perché mi piace quando si va in questi Paesi e si raccontano le loro storie che vanno oltre le etichette negative che da sempre vengono affibbiate loro».
*Guarda il trailer di Coverboy (in concorso al Trailer festival di Catania che si terrà dal 24 al 27 settembre).