Volver, l’antico rito del ritorno a casa La Sicilia nelle feste vista da tre emigrati

Un rito antico eppure sempre nuovo: il ritorno in Sicilia per le feste di Natale. Irrinunciabile nelle storie incapaci di diventare addii. L’occasione per tornare a guardare da vicino una terra dalle molteplici complessità. Da amare e odiare. 

Francesca Marchese, 35 anni.
Su nove cugini, ce ne siamo andati in sei: io a Londra, mia sorella C. in Francia, mia cugina S. ad Aosta, dove ha raggiunto N., M. e R., che hanno tutte l’accento valdostano perché loro padre – mio zio – è prima emigrato vent’anni fa, poi è tornato a Catania per qualche tempo e infine, sfinito dalle difficoltà, è risalito definitivamente. Salvo costruire qui una casetta anti nostalgia. Rimangono qua O., C., che impara l’inglese, e I., che a tredici anni chiede alla mamma di salire a Londra con me. Per le feste ci siamo ritrovati tutti, scandendo ogni giorno con foto ricordo che sembrano miracoli.

Si è parlato di Vecchionie non per le sue canzoni. È accaduto quando mi sono goduta una granita al sole caldo di dicembre, ma poi non ho potuto usare i servizi del bar perché troppo sporchi. Ho pensato che qualunque baretto davanti ai Faraglioni di Acitrezza non sarà più frequentato di uno a Piccadilly, magari reso splendente da un laureato catanese appena arrivato in città. Di storie di successo sono pieni i giornali: alcuni expats siciliani a Londra fanno cose eccezionali, ma la maggior parte fa sacrifici che non catturano clic e like. Chi li racconta, i loro salti mortali a 6 sterline l’ora? Si cavalca l’idea che l’altrove sia per forza migliore: i giovani catanesi sognano Londra ma è un’illusione che sfuma una volta arrivati a destinazione. Qualcuno dovrà pur dirglielo, prima che partano.

Tengo nella manica la storia di un laureato siciliano, con un lavoro pagato una miseria ma che a lui in fondo piace e che io considero creativo, utile e meritevole: tra i turisti è una piccola celebrità e – ci butto la coppola – viene fotografato più del Big Ben. Lui non vuole che io la scriva perché al suo paesino, in Sicilia, tutti lo pensano ricco in giacca e cravatta. Così faccio fede alla promessa, ci mancherebbe. Anche lui alimenta l’illusione. Perché questi talenti non rimangono in Sicilia e nemmeno ritornano? Questa è la prima generazione di paisá social: la sicilitudine è diversa ora che ci sono Skype, Facebook e Meetup, pure Whatsapp che annulla il roaming. Il volo costa meno, eppure oggi parlo con mia mamma più spesso di quanto non facessi a Catania.

Io non me la sento di tornare adesso. Anche se ho visitato la mostra su Tino Giammona al Museum&Fashion di Marella Ferrera, e il museo dell’Etna a Nicolosi. Piccoli miracoli. Anche se il sindaco di Valverde, il mio paese, ha fatto un ottimo lavoro con la voragine che si era aperta in centro settimane fa, un’emergenza che ha gestito bene. 

Non torno perché l’altro giorno a Catania volevo muovermi con i trasporti pubblici e non sono riuscita a usare il biglietto dell’autobus. L’ho comprato in viale Vittorio Veneto, alle macchinette per le strisce blu e, visto che non si vedeva nessun bus all’orizzonte, sono scesa nella metro di corso Italia pregustando il mare del porto. Ma questo tipo di biglietto non entra nell’obliteratrice. Allora sono risalita in superficie e, in due edicole, mi hanno spiegato che ci vuole un biglietto diverso, e che in ogni caso loro, i biglietti, li avevano finiti. Il tabacchino era chiuso. Quindi sono andata a piedi facendo il tragitto del bus e non ne ho incrociato nemmeno uno. Durante la mia passeggiata, mi è sembrato che i negozi catanesi abbiano vetrine più spalancate e sconti più azzardati. Una vetrina espone un cartello: «Per favore non gettare le cicche a terra, abbi senso civico. Fai finta di essere al Nord…»

Con tutta la buona volontà del mondo, come faccio ad affidare la mia felicità a un sistema complicato che a volte sembra mettermi i bastoni tra le ruote? Se posso essere utile alla mia terra voglio farlo da fuori, al sicuro. Voglio farla amare dagli stranieri che la apprezzano più di quanto facciamo noi. Che ci vedono migliori di quanto pensiamo. Che valorizzerebbero di più Marella Ferrera, i vulcanologi che animano il museo dell’Etna, perfino il sindaco di Valverde. Magari riusciranno a convincerci, prima o poi? O magari riusciamo a farcela noi, expat di ritorno?

* * *

Roberto Antona, 35 anni.
Sono diversi anni che vivo fuori dalla Sicilia. Nonostante ciò, ancora oggi, la considero casa mia. Una terra che amo infinitamente e incondizionatamente come una madre. Che porto sempre dentro di me, ovunque io vada. Come quelle della Triscele, le mie gambe sono sempre in movimento, ma la mia testa è sempre ferma qui.

Il ritorno a casa è sempre un tuffo al cuore per diverse ragioni: la vegetazione, i suoni, gli odori, il mare, gli abbracci, il clima, i sapori e quella luce accecante sembrano volerti distrarre e farti dimenticare le cose che hai sempre detestato. Come in una danza folle, ti lasci travolgere dal suo fare ruffiano.

Quando arrivi al drammatico momento, quello della partenza, ti rendi conto che qualcosa sta cambiando, ma purtroppo a velocità da gasteropode. Non mi auguro che il cambiamento venga interpretato erroneamente, come è avvenuto nel recente passato. Come un percorso di totale rivoluzione volto alla realizzazione di opere cementizie inutili e inopportune, o buono a cancellare i tratti caratteristici di una cultura che andrebbero al contrario preservati. La Sicilia dovrebbe ergersi a vessillo della cultura mediterranea, a patria di un turismo che esca fuori dai ranghi di quello di massa voluto dalla globalizzazione.

Vorrei che si pensasse che, nella terra dalla quale provengo, le cose si facciano ancora alla vecchia maniera, con cura e amore e perché no, anche con quella lentezza proverbiale che ci caratterizza. 

***

Lorena Leonardi, 29 anni.
Ho ancora davanti a me una settimana di permanenza a casa, ma il fotogramma del Natale 2015 è di ieri mattina: un sole accecante sui tasti del pc e il pelo lucido del gatto che si allunga tra i riflessi proiettati dagli addobbi dell’albero. Interno, giorno. Non c’è il mare, non c’è la montagna, e nemmeno il cielo, nella mia personale retorica del nóstos. Per me il ritorno è quello agli affetti. La ghiaia di Fondachello ha un senso perché è lì che d’estate andavo al mare. Il lungomare di Torre Archirafi, location delle mie corse serali. La stazione di Giarre e Riposto, quella delle gite a Catania e degli anni da pendolare per l’università.

Passeggio a piedi, perché ormai sono abituata così – in questi anni ho masticato con le scarpe i sanpietrini di tutta la Capitale – e le strade di Giarre potrebbero essere quelle di qualunque quartiere romano: cinesi, poche luci, venditori ambulanti, anziani che chiedono l’elemosina. A fare un rapido sondaggio, direi che nelle famiglie – sì, ci hanno mentito, i nostri nidi non sono più in equilibrio degli altri – il filtro legale, in cui a fare da mediatore è un avvocato, è la modalità di comunicazione più efficace e anche qui la domenica al centro commerciale è tristemente in voga. Soprattutto durante le feste.

Ammantata di placida rassegnazione, ma quasi orgogliosa nella sua indolenza. Così mi sembra la Sicilia nelle pause dalla mia vita romana – meno dolce di quello che il luogo comune pretende – dove c’è tutto il malcostume di una città del Sud, ma anche la fluida emancipazione di una metropoli dalle strade larghe e troppi sguardi perché te ne possa restare impresso uno. Qui vedo sgretolarsi i muri portanti, e quasi immobili sento coloro che restano. Quando mi incontrano commentano dicendo «hai fatto bene», ma non lo credono fino in fondo, conoscono bene anche loro il tepore a cui ho rinunciato. A Roma amici e colleghi, ai quali non ho mai nascosto le mie aperture vocaliche, si informano sulla conversione galeotta degli ex presidenti di Regione, delle strade interrotte e della città di Messina rimasta a secco. Poi, per fortuna, la discussione vira su iris, granite, cannoli e compagnia bella. Qui è uguale: intanto mangiamoci su, ai problemi penseremo con l’anno nuovo. 


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