Affari all’ombra di Cosa nostra nel palermitano Confiscati beni per 10 mln a imprenditore e pentito

Avrebbe costruito la propria fortuna economica all’ombra della mafia. A confermarlo ci sono anche le dichiarazioni di numerosi pentiti: Manuel Pasta, Andrea Bonaccorso e Antonino Nuccio. «Un imprenditore colluso» lo definiscono gli investigatori del Ros, che stamani hanno eseguito un decreto di confisca di beni a carico del costruttore Giuseppe Ferrante. Insieme a lui è stato colpito dal provvedimento, emesso dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo su richiesta della procura, anche il collaboratore di giustizia Francesco Franzese, già reggente della famiglia di Partanna-Mondello. Quest’ultimo ha rischiato addirittura di vedersi revocare il suo status per avere cercato di acquisire gli utili di una delle società di cui era socio occulto, spingendosi addirittura ad incontrare l’imprenditore a Roma nell’ottobre del 2010.

Il provvedimento riguarda beni per un valore di 10 milioni di euro, in parte già sottoposti a sequestro preventivo tra il 2009 e 2011. Si tratta dell’intero capitale sociale e relativo complesso di beni aziendali di due società edili con sede a Palermo (F.G. Riuniti srl e Fin.Ma. srl), partecipazioni societarie, immobili a Carini e Palermo, rapporti bancari e polizze vita. L’imprenditore è stato anche sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per due anni e sei mesi.

Le indagini hanno consentito di far luce sul «rapporto societario di fatto» che permetteva a Ferrante, unico titolare formale delle imprese, di avvalersi dei benefici del suo socio occulto: Francesco Franzese. Era lui, infatti, che lo facilitava nei pagamenti, nel reclutamento dei fornitori, a loro volta legati all’organizzazione mafiosa, e nella possibilità di effettuare le opere. «Senza l’intervento dell’ex reggente della famiglia di Partanna-Mondello, che in virtù del suo prestigio mafioso aveva peraltro coinvolto l’allora latitante Sandro Lo Piccolo – spiegano dal Ros -, l’imprenditore non avrebbe mai potuto realizzare alcuni progetti, cui era pure interessato Vincenzo Graziano, costruttore strettamente legato alla storica famiglia dei Madonia, egemone sul mandamento di Resuttana». L’esistenza del rapporto con Franzese, che fungeva di fatto da garante, aveva inoltre agevolato l’acquisto di terreni, inducendo i proprietari a effettuare la vendita a condizioni più vantaggiose.

Per un certo periodo l’esponente mafioso era stato assunto come capocantiere dal costruttore. Una mossa doppiamente utile. Per mascherare l’effettivo ruolo da lui rivestito ma, soprattutto, per consentire al primo di potersi recare fuori dal Palermo dove era confinato dall’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. E durante il periodo della latitanza di Franzese, la moglie del boss avrebbe consegnato all’imprenditore un’ingente somma di denaro, che, dicono ora gli investigatori, almeno in parte, proveniva direttamente dalle casse di Cosa nostra.

Ma quello con Franzese non era un rapporto isolato. Tra le frequentazioni dell’imprenditore, infatti, c’erano anche Eugenio Rizzuto, all’epoca reggente del mandamento della Noce, e Giovanni Galatolo, nipote di Vincenzo, già capo della famiglia dell’Acquasanta. Inoltre, dopo l’arresto di Franzese il costruttore si era avvicinato a Giuseppe Biondino, 38 anni, appartenente alla famiglia di San Lorenzo e figlio di Salvatore, autista del padrino corleonese, Totò Riina. «Il rapporto occulto con Franzese – spiegano gli investigatori del Ros – non era un fatto isolato, determinato da rapporti di mera frequentazione o disinteressata amicizia, ma una sorta di modus operandi che consentiva a Ferrante di approfittare in materia determinante e non occasionale del rapporto intrattenuto con esponenti mafiosi per svolgere la sua attività economica». Sulla base delle precedenti indagini, Ferrante il 28 ottobre scorso è stato riconosciuto colpevole di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita e condannato alla pena di anni 3 e mesi 8 di reclusione, 1.000 euro di multa e all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Si è invece prescritta l’imputazione di trasferimento fraudolento di valori.


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