Due momenti di preghiera, in moschea e alla Collegiata, si sono conclusi in piazza Università. Circa un migliaio di persone si sono riunite per riflettere una settimana dopo gli attentati in Francia. «Siamo figli di un unico Dio», dice Giusy Brogna del Movimento dei focolari. «Non dobbiamo cadere nell'odio»
Strage Parigi, fiaccolata interreligiosa in centro «Catania è la città dove le culture si incontrano»
Due momenti di preghiera, in moschea e alla Collegiata, e poi la fiaccolata in piazza Università per chiedere di respingere violenze e paure. Siano essi causati da attacchi terroristici o nascano nella convivenza nel territorio. L’iniziativa lanciata da arcidiocesi di Catania, Comunità islamica di Sicilia, Comunità di sant’Egidio e Movimento dei focolari ha raccolto ieri in centro circa un migliaio di partecipanti.
Anche se non citati direttamente, nelle parole degli organizzatori sembra di cogliere un accenno agli atti vandalici realizzati nella notte di giovedì da componenti di Forza nuova. «Catania è la città dove le religioni si incontrano. Il nostro appello all’unità viene dalla nostra tradizione», afferma monsignor Gaetano Zito, vicario dell’arcidiocesi etnea. Poi lancia il suo messaggio partendo dalla storia della città, descritta come «porta delle religioni monoteiste, punto di approdo e comunicazione tra Roma e il Medio oriente». E il monsignore ricorda il tempo in cui «moschea e chiesa erano una accanto all’altra».
Keith Abdelhafid, imam della moschea della Misericordia di Catania, parla della «sacralità della vita umana» sancita dal Corano. Lungo è l’elenco delle stragi che hanno preceduto quella di Parigi di venerdì scorso. Prima Beirut e la Siria, preceduto da quanto successo in Yemen e in Arabia Saudita. Ma l’imam va oltre nel tempo, parla di un dolore personale e arriva al 1965, quando il padre venne coinvolto in un attentato terroristico in Algeria rimanendo cieco. «La mia condanna alla violenza è ogni giorno – afferma Abdelhafid – con le mie azioni, con i miei insegnamenti. Educo tutti a operare per la pace».
«Siamo ormai tutti dentro la guerra». Alle parole di padre Gianni Notari una donna urla tra la folla urla «No!». «Sì, siamo in guerra – riprende il gesuita – Le due sponde del Mediterraneo sono ostaggio». Un conflitto generato dalle colpe del colonialismo, dallo sfruttamento di risorse, dalla vendita di armi. «Prendiamo consapevolezza di questo nostro tempo, ma dobbiamo resistere a paura, generalizzazioni, pulsioni di vendetta – esorta – Facciamo scelte lucide, come quella di non entrare nella morsa della violenza». «Una strada diversa c’è. Catania è davvero un modello di integrazione». Giusy Brogna, del Movimento dei focolari, ne è certa. Assieme alla Comunità di sant’Egidio sono numerose le iniziative avviate. Laboratori con i bambini, momenti di incontro, raccolte di sangue. «Siamo figli di un unico Dio – dice con un sorriso – Non dobbiamo mai cadere nell’odio e nella violenza. C’è tanto bene, è su quello che dobbiamo puntare».
Monsignor Zito e l’imam Abdelhafid accendono assieme una candela dalla quale vengono poi vengono illuminate tutte quelle dei partecipanti. A rappresentare la città ci sono l’assessore alla Legalità Saro D’Agata e il rettore Giacomo Pignataro. Poche le forze dell’ordine in divisa, molti di più gli agenti in borghese mischiati tra la folla. Il gruppo più rumoroso è quello dei bambini di San Berillo e Civita che fanno parte di un progetto avviato nei quartieri del centro dai Giovani per la pace. «Ci siamo fermati a pregare anche noi, è una bellissima iniziativa», commenta una coppia di turisti inglesi.
Per qualche minuto comitive e gruppi si mischiano, si canta We are the world, si scattano numerose foto. Ci sono anche alcuni giovani provenienti dal Cara di Mineo. «Sono qui da cinque mesi, vengo dalla Sierra Leone. È bello incontrare così tante persone». Un po’ in francese e un po’ in inglese Simon racconta la sua storia e la sua felicità di vivere un momento di comunione dopo le paure vissute nei mesi precedenti. Accanto a lui passa una donna. «Buona strada», gli dice stringendogli un braccio. «Paura? Certo, la paura che succeda qualcosa c’è sempre, ma qui ci sentiamo casa», dice con un sorriso Amina.