Da lunedì prossimo il grande negozio di mobili di Misterbianco abbasserà le saracinesche. «In realtà la chiamano sospensione», spiegano i dipendenti, ma la sensazione è che si tratti della fine dell'attività. «Finora ci hanno pagato solo 300 euro al mese. Sul futuro resta un grandissimo punto interrogativo», commentano con amarezza
Mercatone uno, ultima settimana prima della chiusura I dubbi dei lavoratori, silenzio da sindacati e azienda
«Secondo l’ultima comunicazione ufficiale, il nostro è tra i punti vendita in chiusura. Dopo 17 anni di lavoro, domenica sarà l’ultimo giorno». Annalisa Puglisi lavora fin dalla sua apertura al Mercatone uno, il grande negozio di mobili di Misterbianco. «Verranno chiusi 28 punti su 58 in Italia», precisa. Nella sede etnea sono 99 i lavoratori a rischio, anche se dai vertici dell’azienda non si fa riferimento a una vera e propria cessazione dell’attività. «In realtà la chiamano sospensione – spiega Puglisi – Ipotizzano un rilancio con fondi statali».
L’allarme è stato lanciato con la grande svendita iniziata lo scorso 21 marzo. Decisione accolta tra lo stupore degli stessi dipendenti che non ne erano a conoscenza. «Noi ci siamo opposti», sottolinea la donna. E quando la gestione è passata ai commissari nominati dal tribunale di Bologna, sede centrale dell’azienda, «speravamo che la svendita si interrompesse. Ma invece è continuata», conclude con amarezza. Delusione che aumenta se si pensa ai numeri. «Per lungo tempo il punto vendita di Misterbianco è stato il primo in Italia per vendite. A gennaio 2015, senza avere nuovi arrivi di merce, abbiamo fatturato 500mila euro. Da qualche tempo siamo secondi solo a Palermo. Unica pecca – riconosce la dipendente – è l’alto numero del personale».
Su tre strutture siciliane, oltre al centro etneo chiuderà anche quello di Carini, i cui dipendenti però confluiranno nel vicino punto vendita di Palermo. Dal prossimo mese scatterà dunque la cassa integrazione straordinaria. «Ma da aprile dell’anno prossimo cosa succederà?», si chiede Puglisi. «Abbiamo aperto 17 anni fa – racconta – Io ero tra le più giovani. In molti siamo cresciuti qui, qualcuno ci ha conosciuto anche il marito o la moglie». Una vera e propria famiglia, per cui «c’è anche una questione affettiva». «Dovremmo urlare fuori – si accalora – non piangerci addosso». E prosegue: «Prima che succedesse tutto questo, era una società che non ci aveva mai dato da ridire. Poi sono iniziati degli strani silenzi. È cambiata la gestione e nel 2010 hanno riunificato tutti i piccoli centri».
In tutto questo pesa anche l’assenza dei sindacati. «Si sono fatti sentire poco e niente – sottolinea la dipendente – Fino a che le cose non si sono palesate, nemmeno li abbiamo notati. Non abbiamo avuto grossi riscontri». E anche a ridosso dell’interruzione delle attività grava il silenzio. «Girano voci che forse la cassa non coprirà l’80 per cento dello stipendio, ma il 60 per cento. Ma non abbiamo certezza». «Non sappiamo niente. Le comunicazioni arrivano via mail il giorno stesso, a volte qualche ora prima», conferma Antonio Sanzo, anche lui tra i dipendenti storici della struttura. «Finora ci sono state pagate solo le ore lavorate, 300 euro circa al mese – conclude – Su tutto resta un grandissimo punto interrogativo. Sappiamo solo che tireremo giù le saracinesche. Per il resto, silenzio».