Era stata annunciata nel 2013, doveva nascere in un appartamento di viale Africa dei Cavadduzzu. Ma la filiale etnea dell'agenzia nazionale per i beni confiscati non si farà. Lo dice il direttore Umberto Postiglione, intervistato da MeridioNews. Che definisce le imprese confiscate «la previdenza sociale della mafia»
Beni confiscati, a Catania salta la sede dell’agenzia Postiglione: «Niente assistenzialismo alle aziende»
La sede di Catania dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati non aprirà. Annunciata in pompa magna nel 2013, avrebbe dovuto nascere in un appartamento di quattro vani, con vista mare, al viale Africa. Una casa che era stata della famiglia mafiosa dei Ferrera, i Cavadduzzu, affiliati al clan Santapaola, e che è diventata patrimonio dello Stato. E che avrebbe dovuto ospitare, nella seconda provincia siciliana con il più alto numero di beni tolti dalle mani della mafia, la filiale etnea dell’istituzione che si occupa di recuperarli. «Al vaglio del governo c’è una riforma dell’Agenzia — spiega Umberto Postiglione, fu prefetto di Palermo e attuale direttore nazionale dell’ente — Si prevede, tra le altre cose, di eliminare le filiali territoriali. Quella di Catania, che era in fase di studio, è saltata». Nominato a giugno 2014, Postiglione ha riconsegnato alle amministrazioni pubbliche locali «2500 beni. Prima del mio insediamento, se ne consegnavano circa 500 ogni anno, noi abbiamo quintuplicato l’attività», afferma. Ma, nonostante questi numeri, il nodo che rimane da sciogliere è quello della gestione delle aziende confiscate: «Noi non possiamo fare assistenza né inventarci soluzioni impossibili. La maggior parte delle imprese ex mafiose in un contesto normale scomparirebbero».
I dati sulle imprese confiscate alla criminalità organizzata sono sconfortanti. Circa il 90 per cento di quelle passate dalle mani della malavita a quelle dello Stato falliscono o vengono messe in liquidazione poco dopo il passaggio alla legalità. A Catania, per citarne due, c’erano la Riela Group e la La.Ra.. La prima, con sede a Piano Tavola, si occupava di trasporto e distribuzione merci ed era gestita da Lorenzo Riela (morto nel 2007) e dal figlio maggiore Francesco (detenuto all’ergastolo per omicidio). Affiliati al clan Santapaola, avevano trasformato la loro azienda in un impero da 250 dipendenti. È stata confiscata nel 1999 e nel 2012 ha cessato l’attività. La seconda azienda simbolo, la La.Ra di Motta Sant’Anastasia, si occupa di condizionamento per ambienti ed è stata sequestrata nel 1997 al clan Santapaola-Ercolano e confiscata tre anni dopo, nel 2000. Era stata coinvolta in un’inchiesta della Dia sulle presunte infiltrazioni mafiose nella base di Sigonella. Ed era proprio Sigonella l’unico committente della La.Ra: perso quello, a dicembre 2013, i bilanci societari sono andati in passivo. «Non possiamo fare i miracoli, noi dobbiamo solo eseguire le direttive dei legislatori. Se il mercato non dà lavoro alle aziende normali, figurarsi alle aziende confiscate», replica Umberto Postiglione.
«La Riela era una società gestita da mafiosi. Dopo la confisca, i mafiosi l’hanno svuotata delle commesse e dei dipendenti. Hanno trasferito gli affari ad altre aziende e non l’hanno fatto una volta sola. La La.Ra aveva un solo committente: di questi tempi puoi campare avendo un solo committente? La risposta è no», prosegue il prefetto. E se amministratori e lavoratori lamentano di essere stati abbandonati dallo Stato, allo stesso modo non la vede il direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati: «Sono persone che hanno avuto gli stipendi pagati dal pubblico per nove, dieci anni. Se raccontassimo le loro lamentele ad altri lavoratori licenziati in questo momento di crisi, quelli cosa direbbero? Le aziende confiscate… Se c’è il mercato lavorano, se devono chiudere chiudono. Noi dobbiamo solo accompagnarle: o verso il bene, o verso la fine».
Eppure, proprio per i fallimenti che avvengono col passaggio alla legalità, il pensiero di molti è che con lo Stato si possa solo chiudere. «Questa è una porcheria bella e buona — risponde il direttore — Il messaggio che la mafia dia lavoro e la legalità lo tolga è vecchio. Non c’è nessuna legge che ci imponga di dare particolari sovvenzioni alle aziende confiscate, e secondo me non è nemmeno necessaria». Sarebbe necessaria, invece, un’analisi del mercato «per capire se un’impresa confiscata può camminare sulle sue gambe oppure no». «Gli esperti questo lo capiscono. Dobbiamo chiarire una cosa: quando da una società scompare la mafia, scompare anche il meccanismo che aveva regolato le risorse aziendali fino a quel momento. Il sistema di intimidazioni, pressioni, riciclaggio del denaro sporco, evasione fiscale: tutto questo viene meno e comporta, com’è ovvio che sia, una variazione sostanziale nella mole delle entrate». Se si devono impiegare delle risorse economiche per gestire le aziende confiscate, «tanto vale chiuderle prima e usare quei soldi per aiutare i lavoratori. E prima si deve capire se quegli stessi dipendenti erano mafiosi: non dimentichiamo che le aziende sono anche la previdenza sociale della mafia. Servono a dare lavoro ai parenti dei detenuti, a garantire delle entrate sicure agli affiliati. È una macchina drogata e complessa». Per la quale le soluzioni sono ancora lontane: «Da questa mitologia delle aziende derivano i problemi più grossi. Ci spiegassero come fare a farle lavorare, noi lo faremmo. Ma risposte in tasca non ne abbiamo».