Da una parte le istituzioni, che non possono accettare che una scuola pubblica - anche se in disuso - venga occupata. Dall'altra i rumeni che gestiscono il lavoro nei campi, infastiditi per l'esposizione mediatica dei migranti che lavorano nella raccolta delle arance. In mezzo, i lavoratori stranieri e le loro storie. Guarda il video
Paternò, nuovo sgombero per i braccianti marocchini «Troppa attenzione, i caporali non li volevano pagare»
Lo sgombero era previsto per questa mattina, ma è stato rimandato ai prossimi giorni. Quei trenta migranti sfollati con le ruspe dalla tendopoli in cui vivevano, in contrada Ciappe bianche, a Paternò, dovranno andare via anche dalla scuola Falconieri, l’istituto scolastico in disuso in cui si erano trasferiti 20 giorni fa. C’erano entrati, scavalcando i cancelli chiusi, dopo che la denuncia del proprietario del terreno in cui si erano stabiliti, in un accampamento improvvisato, aveva causato l’intervento delle forze dell’ordine paternesi. E lì volevano rimanere, con il tacito consenso dell’amministrazione locale, almeno fino alla fine del periodo di raccolta delle arance nelle campagne, attività in cui tutti loro – provenienti dal Marocco, in Italia da anni – sono impiegati.
Ma l’attenzione dei media sul caso avrebbe causato più di un fastidio: quello dei caporali che, secondo alcuni, non avrebbero più chiamato a lavorare i migranti intervistati; e quello dei rappresentanti della giustizia, imbarazzati per via del fatto che una struttura pubblica venisse usata illecitamente come centro di prima accoglienza. Il risultato è che oggi i braccianti marocchini hanno rischiato di non avere più un posto dove passare la notte. E neanche una paga certa, dopo che, ieri mattina, sono stati costretti a occupare i furgoni dei loro sfruttatori che non volevano pagarli.
Era la fine di gennaio quando un nutrito gruppo di lavoratori di origine marocchina è arrivato nelle campagne paternesi. Giovani, tra i venti e i trent’anni. Adesso raccolgono arance. Prima, in Calabria, raccoglievano mandarini. Prima ancora, in Puglia, stavano nei campi di pomodori. Nei prossimi mesi si trasferiranno a Cassibile per le patate. A Paternò dovevano rimanerci per una quarantina di giorni, la durata della stagione degli agrumi. Avevano trovato posto in un terreno abbandonato a Ciappe bianche, poco distante dai campi. Ci si erano accampati con teloni di nylon e tende improvvisate. Poi, lo scorso 25 febbraio, una denuncia aveva provocato l’intervento delle ruspe della polizia municipale paternese. «Hanno perso tutto, hanno solo quello che avevano addosso», aveva detto in quei giorni Rosario Di Benedetto, giovane attivista locale che ha seguito la vicenda.
E ieri mattina, dopo la notizia del possibile sgombero, è stato Di Benedetto a mediare la contrattazione tra i braccianti e i loro datori di lavoro: «Da quando hanno saputo che li avrebbero mandati via anche dalla Falconieri, alcuni migranti hanno deciso di andarsene da Paternò. E, siccome vengono pagati ogni 15 giorni, sono andati dai caporali a chiedere i soldi che spettavano loro». Ma la risposta dei caporali – di nazionalità rumena – è stata negativa. «Non volevano dar loro la paga in anticipo, si sono rifiutati». La discussione si è accesa e ha animato una delle piazze principali del Comune etneo dalle sette alle dieci del mattino. Alla luce del sole i marocchini, tutti senza contratto, chiedevano il loro stipendio. Alla luce del sole i loro aguzzini glielo negavano. «I migranti hanno occupato i furgoncini con i quali vengono trasportati dalla città ai campi e viceversa. Non li avrebbero lasciati partire se non avessero ricevuto i loro soldi – racconta – Alla fine, chi ha deciso di andare via è stato pagato».
Sono cinque i marocchini che hanno lasciato Paternò già ieri. Ne rimangono più di una ventina, tutti alloggiati alla scuola Falconieri. Tutti in attesa di essere sgomberati per la seconda volta in meno di un mese. «La situazione è pesante», dice Rosario Di Benedetto. A complicarla la reazione dei braccianti italiani: «Hanno preso le parti dei rumeni, hanno difeso i caporali. Perché ormai è solo una guerra tra poveri». Che si consuma al centro del paese, dove la manodopera viene selezionata all’alba per prepararsi a dodici ore di lavoro.
«La situazione è molto delicata dal punto di vista umano», afferma Mauro Mangano, sindaco paternese. «Non può essere un edificio pubblico, nel quale deve a breve iniziare una ristrutturazione, a fare da punto di prima accoglienza. Per chi, dopo lo sgombero, vorrà rimanere in città attiveremo altri luoghi d’aiuto. In ogni caso, ci prepariamo all’eventualità di dover accogliere qualcuno». «A me stanno a cuore prima di tutto gli esseri umani – afferma con amarezza il primo cittadino – E che si pensi di risolvere tutto liberando la scuola lo trovo disumano. Noi abbiamo attivato una rete di solidarietà, ma serve supporto». «Però il sindaco non è obbligato a cacciarli – replica Di Benedetto – Non c’è nessun obbligo, nessuna carta scritta. Farli restare al riparo non costava niente».
In mezzo, ci sono i lavoratori stranieri. Senza contratto e senza tutele: «Vorrei far venire qui la mia famiglia ma così non posso», spiega uno di loro. «Prendi 50 cassette sulle spalle, ti pagano 60 centesimi a cassetta – prosegue – Poi devi pagare il gasolio ai rumeni». Cinque euro per il viaggio di andata e ritorno. Cercando la normalità in una partita di calcio coi ragazzini paternesi, nel campo alle spalle della scuola Falconieri. Prima di andare a fare la doccia alla Caritas e a mangiare all’Anpas. «Andate via, cosa volete fare vedere?», dice un altro bracciante davanti alla mensa, in attesa che i volontari delle associazioni portino i pasti caldi. «Hanno paura – conclude Di Benedetto – Perché se parlano li riconoscono e se li riconoscono non lavorano più. E perdono pure quei venti euro al giorno».