Il tema della vita come attesa nella poetica di Dino Buzzati

“IL DESERTO DEI TARTARI” E’ L’OPERA PIU’ FAMOSA DI UNO SCRITTORE CHE SI MISURA CON IL LIMITE INSOPPRIMIBILE CONNATURATO ALLA NOSTRA ESISTENZA TERRENA

di Rossella Cerniglia

A spiegare la genesi del suo più noto e riuscito romanzo – Il deserto dei Tartari – Dino Buzzati (nella foto a destra, tratta da wikipedia) aveva affermato essere nato dalla riflessione su un lavoro – quello di giornalista – che l’aveva impegnato già dal 1933 al 1939; lavoro, per certi versi, “pesante” e “monotono”, come egli ebbe a dire, in cui gli anni passavano ed egli si chiedeva se sarebbe stato sempre così, se mai le speranze, i sogni, avrebbero trovato concretezza o non toccasse loro di diluirsi in quel trascorrere e in esso trovare la morte, atrofizzandosi a poco a poco.

La storia narrata, semplice ed essenziale nella sua esile trama, si è prestata a diverse interpretazioni. Molti vi hanno ravvisato un richiamo ad una visione kafkiana dell’esistere, ad una dimensione dell’assurdo come struttura imprescindibile dell’esistenza, altri vi hanno indovinato una rappresentazione, in termini astratti, del rapporto dell’uomo Buzzati con la storia di quel particolare momento, cioè col fascismo. Comunque stiano le cose, il fascino vero e profondo dell’opera deriva dal fatto che la vicenda di Giovanni Drogo e degli altri, ufficiali e soldati, che presidiano la fortezza Bastiani, non è che una metafora della vita nei suoi termini più universali e drammatici.

La Fortezza, avamposto di uno sperduto sito di confine, è da secoli misteriosamente minacciata dall’invasione dei Tartari, popolazione dai tratti favolosi e remoti che si situa all’orizzonte di quello spazio-tempo immaginario entro cui si dispiega la vicenda. Insieme agli impervi scenari su cui si staglia, la mole della Fortezza si mostra, già al primo apparire, avviluppata in un’atmosfera straniante, metafisica e surreale; nel suo icastico nitore vive una malia che la colloca in una dimensione in sé conclusa, conturbante, avulsa dalla vita normale.

La città, infatti, che questa vita “normale” rappresenta, resta, da essa, in una lontananza imprecisata; lo stesso Drogo ne interrompe, a partire da un determinato momento, i ponti, persino con quanto di più caro vi rimane incluso: gli affetti familiari, la ragazza che un tempo corteggiava. Perciò, in confronto alla città, la Fortezza è una scelta imperativa, ben definita, la scelta del destino di chi vuol guardare nel profondo dell’essere e della realtà e scoprirne un senso, un valore che ci consenta di sopportare la pena di vivere.

Non per nulla l’originario titolo del romanzo era stato La Fortezza, poiché essa è la vita così come si configura in questa ricerca di senso, in questo tentativo di dare giustificazione all’insensato procedere del tempo, all’insignificanza dei giorni che seguono ai giorni senza che niente di veramente incisivo giunga a maturazione per riscattare solitudine e angoscia: il profondo misterioso niente che ci sta davanti.

Il Deserto, metafora di questo vuoto e di questo niente, landa desolata, arduo scenario su cui si profila la vicenda, rappresenta, pertanto, la misteriosa, desolante prospettiva del vivere: un nulla, appunto, se non ci fosse, per essa, pur simile a un lontano miraggio, un riscatto a tale insignificanza.

Così l’esistenza della Fortezza trova una sua ragion d’essere nell’assurda fantasticheria, nella remota improbabile ipotesi di un’aggressione da parte dei leggendari Tartari, proprio come il monotono avvicendarsi dei giorni vani e privi di senso abbisogna di un sogno in cui incarnarsi e riscattarsi.

Ma questo tema, su cui è imperniata l’intera vicenda – quello dell’attesa di un riscatto che renda giustizia del vivere, attribuendo un senso a una dimensione altrimenti insensata, svilita, inerte e vuota – è inesorabilmente legato al processo del tempo. Nella sua connotazione reale esso scorre inesorabile e cambia gli esseri e le cose; ma il tempo dell’attesa, tempo tutto interiore, è statico, interamente proiettato nell’attimo che dovrebbe costituire la salvezza: la possibilità di un gesto etico ed estetico insieme, nobile ed eroico, determinante e costruttore di senso e di valore.

Perciò i giorni si susseguono ai giorni nella Fortezza, monotoni e pregni di una lacerante tensione: l’attesa dei Tartari, l’attesa di un’epica battaglia che giunga a colmare questa mancanza di senso. E il tempo sembra fermarsi, stagnare, in tale attesa. Ma questo, fintanto che la giovinezza dura, poiché la giovinezza è essenzialmente attesa, speranza di grandi eventi.

Così, a un certo punto, Drogo sentirà gli anni pesare su di sé, quasi all’improvviso, come se il tempo – prima fermo, stagnante – si fosse messo in moto, scorrendo sempre più velocemente, riversandosi come una valanga, depositandosi sulle cose con ritmo sempre più accelerato: improvviso segnale che la giovinezza è finita.

Allora, e solo allora, sotto il peso degli anni che, quasi a sua insaputa, si sono accumulati sul corpo e sullo spirito del protagonista, nel cadere delle speranze e delle illusioni, il tempo riaffiora e riprende il suo corso, divenendo divoratore inesorabile: infatti, solo all’interno di una vita vissuta come necessaria ricerca di senso e di valore, espressa attraverso l’ineffabile luogo che è la Fortezza, il tempo ha una connotazione tutta interiore.

Fuori, il tempo reale, quello che fluisce nella “dimensione cittadina”, da cui Drogo si allontana, è invece sotterraneo, inesplorato ed incessante mutamento. La dimensione della Città e quella della Fortezza rappresentano due modi possibili di vivere, anzi di affrontare la vita, ne sono i simboli: dissipato e superficiale l’uno; interiorizzato e profondo l’altro.

Non per nulla, nel suo breve ritorno in città per una licenza, Drogo ne coglie ormai la distanza definitiva, irrecuperabile dal suo sé. Avverte la strana improvvisa lontananza da tutto, che lo avviluppa con un senso quasi fisico di malessere; ogni cosa gli appare perduta per sempre, inspiegabilmente estranea, persino la vecchia casa, la sua stessa stanza, la madre, la sua quasi-fidanzata. Tutto, allora, i mobili, gli oggetti che gli erano familiari, le voci e i gesti delle persone care, quanto era stato per lui assai intimo, gli diventa, a un tratto, remoto ed estraneo; ed egli, dolorosamente, prende coscienza di tale estraneità come pure del fatto che egli stesso è divenuto distante ed estraneo agli altri.

Ed è proprio questo senso di estraneità e lontananza dalla vita degli altri, dalla vita comune, che gli fa compiere quella scelta radicale – forse di per sé eroica – che è la vita nella Fortezza, col suo farsi giornaliero non meno disadorno e incolore di quello da cui prende le distanze, anzi ancor più marcatamente monotono e vuoto, ma più consapevole della solitudine e del mistero di esistere, e col miraggio lontano di una irraggiungibile pienezza e felicità.

Tuttavia, il sogno, per Giovanni Drogo non giunge, o giunge troppo tardi, a dire che la sua vita si consuma priva di senso, anche e proprio per colui che tanto lo aveva desiderato, tanto invocato, e la morte è lo straziante epilogo di tanta attesa.

Giovanni Drogo, che per Buzzati è il paradigma non solo di se stesso, non solo dell’intellettuale che si misura con la realtà insormontabile del destino, ma dell’uomo intero che vive entro una realtà inesplicabile, Giovanni Drogo morirà solo, reietto e oscuro, lontano dalla dimensione ideale che tanto aveva cercato.

I Tartari, infine, muoveranno guerra, ma solo quando egli, debole e malato, non potrà più prendervi parte. E questo – sembra voler dire lo scrittore – è il destino dell’uomo quando si misura con cose che sopravanzano i suoi angusti confini, la finitudine dell’esistenza stessa: il “senso” di essa rimarrà imperscrutabile, trascendente, e all’uomo sarà consentito solo un sofferto e dignitoso accettare, nel momento estremo, l’inevitabile struggente sconfitta: il limite insopprimibile, connaturato alla nostra esperienza terrena.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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