Le menzogne hanno spesso le gambe corte: i casi di Günter Grass e Dario Fo

PRIMA DI SALIRE IN CATTEDRA BISOGNA CONTROLLARE I PROPRI ARMADI. SE CI SONO ‘SCHELETRI’ E’ MEGLIO EVITARE DI GIUDICARE I VIZI ALTRUI. E, SOPRATTUTTO DI SCAGLIARE LA PRIMA PIETRA…

Ci sono tanti che gridano manifestando, indignati, contro le ingiustizie e le sopraffazioni in nome di valori nobili, eppure fra questi ogni tanto se ne scopre qualcuno che, in verità, guardando al suo passato, non ha molti titoli per farlo. A questo proposito mi pare utile raccontare due vicende.

Qualche tempo fa, il celebre scrittore tedesco Günter Grass, molto critico nei confronti di Israele, forse per anticipare qualche rivelazione che, data la sua militanza politica a sinistra, l’avrebbe messo in difficoltà, confessava di avere avuto un passato del quale non si poteva dichiarare orgoglioso. Dichiarò, infatti, di avere fatto parte, all’età di 17 anni, delle Waffen SS, le famigerate squadracce naziste protagoniste delle persecuzioni contro gli ebrei e di altre esecrabili atrocità. A sua giustificazione aggiunse che quell’arruolamento era stato forzato e che, quindi, non si trattava di adesione volontaria.
La notizia fece scalpore e lo fece, ancor di più, nel momento in cui si scoprì, dopo che vennero pubblicati i documenti della Stasi, che quell’arruolamento, piuttosto che forzato, era stato volontario. La furbizia non riuscì a tirare fuori dal garbuglio il premio Nobel della letteratura 1999 e, invece, accentuò le perplessità di un’opinione pubblica che, almeno in Germania, su questi temi appare ancora abbastanza sensibile.

In parallelo, in Italia, accadeva qualcosa di simile con l’unica differenza della minore sensibilità della nostra gente, abituata com’è a vivere in un mondo di menzogne. La vicenda, peraltro notoria, riguarda ancora un Nobel e una storia che si riferisce pure ad un giovane nel terribile periodo che segue il famoso 25 luglio 1943, data della caduta del fascismo, e che vede l’Italia, spaccata in due, occupata da eserciti stranieri che si combattono sul suo territorio. Il protagonista a cui facciamo riferimento è l’attore Dario Fo, insignito del Nobel nel 2005 “perché seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi”. Motivazione che, come appare evidente, ha così poco di letterario e molto di politico.
Il fatto venne alla luce a seguito di un articolo del 1975 di Giancarlo Vigorelli. Il giornalista, infatti, sulla base di un sentito dire, insinuò pesanti trascorsi fascisti di Fo. La reazione del “giullare” fu adeguata. Querelò il Vigorelli negando di non avere mai avuto trascorsi fascisti né, tanto più, di avere militato nella Repubblica sociale italiana. La questione si concluse, davanti al giudice, con “un nulla di fatto”. Fo si accontentò di una formale rettifica e non insistette, per buone ragioni, nella querela.
Ma la vicenda non si chiuse lì. Contro Fo si scagliò, subito dopo, il direttore del “Candido”, il senatore missino Giorgio Pisanò che, alle accuse generiche di Vigorelli, aggiunse documenti che dimostravano l’arruolamento volontario di Fo nei repubblichini, in un reparto che si distinse nei rastrellamenti, casa per casa, operati dalle squadre fasciste nella zona del Lago di Como.
A seguire, nel 1977, un giornale di Varese, Il Nord, scriveva: “A Fo non conviene ritornare a Romagnona Sesia dove qualcuno potrebbe riconoscerlo: rastrellature, repubblichino, intruppato nel battaglione Mazzarini della Guardia nazionale della Repubblica di Salò”.
A questo punto Dario Fo si trova in una condizione difficile, messo alle strette da quelle notizie infamanti che lo riguardano, reagisce con una querela nei confronti del giornale e dell’autore dell’articolo. Ma, il suo dire di non essere stato mai repubblichino, viene smentito da una fotografia che lo ritrae in divisa e da numerose testimonianze di ex commilitoni.
La scoperta della menzogna mette in seria difficoltà il Nobel che, non avendo altra scappatoia, tira fuori una storia patetica di lui diciottenne che si arruola per sfuggire all’occhiuta polizia fascista ma, anche, per coprire le attività del padre partigiano. Una storia, però, piena di contraddizioni che viene messa in forse dalle smentite che Lazzarini, il comandante Nino, capo partigiano e testimone di quegli eventi che Fo aveva dichiarato di avere sempre ammirato, offre al pubblico dibattito.
Fuori dalla grazia di Dio, Fo querela anche Lazzarini. Il clamoroso processo che metteva una parola chiara su tutta la storia si concludeva con una sentenza esemplare che evidenziava l’avere, lo stesso, “Fo vestito la divisa del paracadutista repubblichino nelle fila del Battaglione Azzurro di Tradate”…e concludeva che fosse legittima per Dario Fo non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di “rastrellatore”.
C’è da aggiungere che il dispositivo fu così puntuale che lo stesso Fo, non se la sentì di proporre un sicuramente inutile appello. Con l’onestà intellettuale che la contraddistingueva, ma anche con la forza della testimonianza che l’ha resa poco gradita ai conformisti, Oriana Fallaci poté così definire, in un suo pezzo, senza mezzi termini, Dario Fo che l’aveva attaccata con l’aggressività tipica di un moralista “vecchio giullare della Repubblica di Salò”.

“Solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinioni”. Richiamiamo quest’aforisma del poeta Russel Lowel per dire che Fo, come il Grass, poteva benissimo ammettere senza che ciò avrebbe destato molto scandalo quanto fatto negli anni della gioventù.  Questo perché, alla fine, si trattava di giovani in un tempo di grande confusione politica e morale. Invece, mossi da certo delirio di onnipotenza del quale è pezzo forte la purezza della loro biografia, hanno mentito a più riprese, dimostrando un livello morale non certo altissimo. Proprio queste menzogne, o mezze menzogne li privano, a mio modo di vedere, del diritto di giudicare, come invece fanno, i comportamenti e i vizi altrui.

 

 


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