Da cagliari globalist pubblichiamo questa bella lettera di una donna che fa impresa. E che combatte contro la mentalita' convenzionale. E anche per superare la disinformazione
Fare impresa in Sardegna: la testimonianza di un’imprenditrice
DA CAGLIARI GLOBALIST PUBBLICHIAMO QUESTA BELLA LETTERA DI UNA DONNA CHE FA IMPRESA. E CHE COMBATTE CONTRO LA MENTALITA’ CONVENZIONALE. E ANCHE PER SUPERARE LA DISINFORMAZIONE
di Daniela Falconi
Quasi ogni giorno attraverso la mia pagina Facebook e ogni volta che mi si da l’opportunità di parlare in pubblico cerco di raccontare due o tre cose sulla mia piccola e (per alcuni) insignificante esperienza lavorativa nel settore agroalimentare: l’essere e il vedersi riconosciuto il ruolo di imprenditore all’interno della società, l’importanza delle filiere agroalimentari e la battaglia contro la peste suina africana in Sardegna.
Apparentemente le tre cose tra loro sembrerebbero slegate ma in realtà rappresentano aspetti diversi dello stesso problema. Provo a spiegarmi meglio: per fare gli imprenditori serve prima di tutto un’idea forte di partenza, un’idea che sia in grado di coniugare la passione ciò che si andrà a produrre e il “fascino” che quel prodotto potrà esercitare sul mercato. Il resto è affidato alla capacità umane delle persone, ai rischi di impresa con tutti gli annessi e connessi relativi al rapporto credito/impresa e impresa/consumatore. Quando si decide, come nel caso della mia azienda, di produrre un bene fortemente legato al territorio, una produzione che abbia quindi un forte attaccamento con la cultura e le tradizioni di un luogo e lo si vuole produrre su larga scala abbinando tradizione ed innovazione, coniugando la genuinità del prodotto con una lavorazione industriale il vedersi riconosciuto il ruolo di imprenditore sembra quasi escludere il fatto che lo si possa fare rispettando le regole e con un’attenzione quasi maniacale alla genuinità dei prodotti e alla loro tracciabilità.
In una società come quella sarda in pochi sono disposti a capire che l’ideale, per chi ha l’ambizione di produrre un prodotto legato al territorio in cui vive, è quello di reperire le materie prime necessarie alla produzione proprio in quel territorio. E quando si decide di produrre salumi tipici, in Sardegna, con l’idea di realizzare grandi celle di stagionatura tarate come se fossero le cantine dei nostri nonni nei mesi invernali, riproducendo quindi su scala industriale un prodotto tradizionale devi mettere in conto che l’idea iniziale di filiera, cioè di legare allevamento e industria non può essere realizzata. Non può essere realizzata perché in Sardegna c’è la peste suina, e non è uno di quei problemi risolvibile solo con un’adeguata profilassi. La peste suina, difatti, in Sardegna esiste da almeno 30 anni e, se non fossi certa del fatto che non tutto è stato fatto per risolverla, direi che ormai ce l’abbiamo nel DNA come un patrimonio genetico da tramandare di padre in figlio. Un problema affrontato solo ed esclusivamente negli anni come un problema sanitario e mai come un problema culturale e sociale. Perché quando non si danno ai territori e ai suoi abitanti gli strumenti culturali per capire che agire nella legalità e nel rispetto delle leggi può produrre nel tempo enormi benefici economici rispetto al sicuro indennizzo che, allo scoppiare di una nuova pandemia, viene riconosciuto a chi è uscito fuori dalle regole che la nostra comunità sarda si è data. Per questo motivo succede che chi ha deciso di produrre salumi tipici su scala industriale in Sardegna essendo costretto all’esportazione (o volendo esportare) per mantenere buoni livelli di risultati economici (e quindi mantenere o incrementare i posti di lavoro diretti o nell’indotto) non possa lavorare carni suine allevate nella nostra terra perché per queste carni, da oltre un anno, vige il divieto assoluto di esportazione. Questo divieto resiste anche su carni certificate come sane poiché la burocrazia regionale, nazionale ed europea fa valere tale divieto fin tanto che in Sardegna ci sarà anche un solo capo infetto.
Perché scrivo tutte queste cose dirà il lettore di Cagliari.Globalist? Per un motivo molto semplice e strano allo stesso tempo (strano perché non accade tutti i giorni): qualche giorno è venuta nella mia azienda una troupe di Ballarò con l’intento, credevo io, di dar voce ai nostri problemi. Finalmente! mi sono detta quando ho accettato l’intervista. Avrei avuto l’opportunità di dare una ribalta nazionale per un problema che da sempre abbiamo curato “in casa” tra estenuanti ispezioni regionali, ministeriali e comunitarie e delle nostre ASL che non hanno mai avuto nessun risultato soddisfacente. Mi si dava l’opportunità di dire, in un’importante trasmissione televisiva nazionale vista da milioni di spettatori che in Sardegna ci sono enormi prospettive di sviluppo (almeno) nel comparto. Nell’intervista ho provato a raccontare che se tutti i prosciutti che la mia azienda produce anziché essere acquistati da un’azienda emiliana provenissero dagli allevatori della Barbagia riuscirei non solo a chiudere la filiera potendo attribuire – finalmente! – l’etichetta di vero sardo al mio prodotto dandogli automaticamente valore, ma, cosa altrettanto importante, avrei contribuito a costruire un reddito oggi inesistente per gli allevatori dei territori in cui vivo. Ho denunciato l’inerzia della politica che continua a considerare solo l’aspetto sanitario del problema della peste suina africana e mai quello sociale ed economico. Ho denunciato l’impossibilità – nonostante la fortissima volontà da parte nostra – di acquistare carni sarde in quanto ci verrebbe completamente preclusa la possibilità di sviluppare fatturato oltre i confini dell’isola. Ho denunciato che per l’allevatore suinicolo in Sardegna non esiste nessuna contribuzione sulla qualità e nessun incentivazione sul benessere animale come per gli altri allevatori di altri settori e che pertanto il sistema di “prevenzione” è inesistente. E cosa è capitato, allora? Quel servizio e quell’intervista non sono andati in onda. Non discuto le scelte editoriali che hanno portato all’esclusione della mia intervista poiché, ogni voce che contrasta, quando si deve dimostrare una tesi può essere messa a tacere nel grande tritacarne televisivo e mediatico. Non discuto neanche l’obiettivo, che era chiarissimo, di dimostrare che nelle nostre tavole arrivano prodotti “a filiera lunghissima” e che questi, spesso, vengono spacciati per sardi. Ciò che discuto è quella specie di pressapochismo che non approfondisce i problemi, che li affronta solo lateralmente.
In realtà la mia intervista è stata tagliata perché scardinava una parte di quella tesi. È un servizio nel quale si denunciava la presenza (vera, peraltro), nella grande distribuzione, di prodotti alimentari provenienti a prezzi bassissimi da tutti i paesi del mondo. Si cercava, in quel servizio, di portare all’attenzione del consumatore il fatto che in Sardegna, fra le altre cose, si mangiano maiali “stranieri” perché costano meno e non perché esiste un problema sanitario che ci impedisce, anche con capi sani allevati in Sardegna, di esportare un solo prosciutto o un solo salame. Si è fatta la solita operazione che racconta gli effetti, ma tralascia le cause. Si è fatta l’operazione che non riconosce all’imprenditore di essere imprenditore; all’imprenditore agroalimentare di voler fare bene il proprio lavoro legandosi sempre e di più al territorio dal quale ha imparato a produrre; non si riconosce all’imprenditore la volontà di fare impresa sociale dove il proprio legittimo profitto alimenta il reddito di altri lavoratori, incrementa l’occupazione e ridistribuisce la ricchezza.
Forse quei giornalisti totalmente ignari del problema della peste suina in Sardegna anche perché, forse nessuno prima di me gliene aveva mai parlato, pensavano di venire nella mia azienda per dimostrare che si producono salumi sardi, ma con carni che arrivano dall’estero solo perché costano meno. Poco importa che quelle carni siano certificate, tracciabili e sanissime. La mia intervista non è andata in onda, ma mi sento in dovere di raccontare, oggi più di ieri, a quanta più gente possibile, con i mezzi a disposizione che ho, che in Sardegna c’è la volontà di fare impresa non per guadagnare un po’ di più, ma perché si è legati a un territorio e a una terra dalla quale abbiamo imparato a produrre, una terra nella quale abbiamo deciso di investire per creare occupazione, una terra – se solo le istituzioni e le burocrazie lo capissero! – nella quale redistribuire reddito e dare nuovi e buoni posti di lavoro. Ma fin tanto che la peste suina non verrà percepita come un problema culturale dal quale dipendono le sorti di una filiera che ha immense possibilità di crescita sarà un sogno parlare di industria agroalimentare legata indissolubilmente ad un territorio e alle genti che lo abitano e lo vivono. Senza capire che è i primi a volere la soluzione di questo atavico problema sono gli imprenditori come me che l’impresa la vogliono mantenere in un piccolo paese, a diretto contatto con i produttori della materia prima per creare una filiera cortissima che venga percepita come autentica non solo per le modalità di lavorazione, ma anche per la provenienza della materia prima.