Le chiavi dell’Islam

E’ opportuno richiamare l’attenzione di storici e intellettuali, in particolare arabi, sul fatto che da un punto di vista storico la democrazia in senso greco, ripresa e praticata dall’Occidente europeo, è rimasta sconosciuta all’Islam. Ancor più significativo è il fatto che l’Islam – che ha attinto alle differenti fonti della civiltà ellenica, perfino in tutti gli ambiti della poesia – ha trascurato la visione politica democratica. Salvo affermare che l’Islam ha conosciuto una forma di “democrazia”, vale a dire la tolleranza nei confronti dei non musulmani, le Genti del Libro.
 
Ciò nondimeno, questa tolleranza che rappresentava una sorta di liberalità nella relazione con il prossimo sussisteva condizionata e soggetta a una certa credenza, per non dire certezza, di possedere la verità totale e assoluta. È proprio sulla base di questa verità assoluta che questa tolleranza nei confronti del prossimo veniva a essere considerata un dono dell’Islam. È come se la pratica religiosa altrui in seno alla società musulmana dipendesse dalla rappresentazione di un dono o di una superiorità degli uni rispetto agli altri. A questo punto, questa tolleranza non ravviserebbe ciò che nega l’idea stessa di democrazia? La tolleranza, di fatto, si riduceva a una sorta di accettazione a coesistete con i non musulmani. I musulmani si consideravano dotati di un potere (la tolleranza) che istituiva una determinata gerarchia, per meglio dire una supremazia degli uni in rapporto agli altri. Si può allora affermare che il fatto di approvare o predicare la tolleranza è in contraddizione coni principi egalitari della democrazia (uguaglianza tra i cittadini membri di una stessa comunità…).
 
Si potrebbe inoltre far notare che curiosamente i musulmani non hanno potuto beneficiare di questa tolleranza, in ragione da un lato di un aspetto di questa unione più intima tra religione e politica, e dall’altro dei conflitti troppo sanguinari per il potere e la dominazione politica scoppiati nel nome della religione, e tutto ciò sin dalla nascita dello Stato islamico. Si può ancora aggiungere che da questo punto di vista i musulmani hanno dato prova di minor tolleranza degli ebrei che vivevano tra loro, anche se oggi i loro rapporti con i palestinesi sono piuttosto discriminatori e affatto democratici.
 
Possiamo interpretare la storia dei musulmani dalla fondazione dello Stato islamico come una guerra continua, senza fine, volta a negare il pluralismo in seno all’Islam e ciò sulla base di un potere unico e semplice, che ha le sue premesse in un unica religione. Questa guerra non è mai finita: in un modo o in un altro le sue fiamme non si spengono mai, non soltanto tra i due gruppi antagonisti, come gli sciiti e i sunniti, ma anche tra altri gruppi meno conosciuti e meno direttamente coinvolti.
 
Noi non possiamo ignorare o dimenticare la gravissima violenza che ha contrassegnato la Storia islamica, violenza che assunse la forma di omicidi individuali o di sterminio collettivo su un piano politico e altresì culturale e ciò, dopo quella che fu chiamata «la guerra degli apostati o dei rinnegati», passando per i movimenti di rivolta o di ribellione, di ateismo, di filosofia, di mistica o di poesia.
 
Contrariamente all’ebraismo e al cristianesimo, l’islam non ammette che ci si possa allontanare da esso a beneficio di qualche altra religione, e arriva a condannare a morte chiunque lo rinneghi o tenti di uscirne. Ciò significa che i musulmani, nonostante abbiano preso in prestito dall’Occidente alcune forme parlamentari, non cessano di spostarsi in un universo teocratico e dispotico. Pertanto le forme prese in prestito dall’Occidente restano in superficie, artificiali e infondate.
 
Il problema dell’Islam da questo punto di vista non nasce dall’esterno imperialista (sia esso politico o culturale), ma è parte della struttura o della natura stessa della visione religiosa islamica dell’uomo e del mondo. L’imperialismo non fa che sfruttare questo fatto per espandere la propria egemonia. Questa visione si contrappone al pluralismo, da un punto di vista culturale, e alla democrazia da un punto di vista politico. Il suo senso religioso, l’Uno, l’Unico, si traduce sul piano pratico nell’esercizio di una politica esclusiva che incarna il potere assoluto nella società.
 
La democrazia e questa visione si escludono reciprocamente. La visione islamica, infatti, si fonda sulla Rivelazione secondo cui il messaggio divino è l’ultimo messaggio trasmesso dall’ultimo Messaggero. E, appunto per questo, il messaggio contiene tutte le verità possibili, buone in tutti gli ambiti. L’uomo non può quindi modificarle né apportarvi il minimo cambiamento. Deve accontentarsi di credere in esse, di applicarle e di viverle nella pratica quotidiana. Si può altresì affermare che secondo questa concezione, Dio stesso non ha più nulla da aggiungere, perché Egli ha rivelato al suo ultimo profeta il suo ultimo volere. Pertanto colui che rinnega questo messaggio non rinnega soltanto Dio e il suo profeta, ma perfino la propria natura umana e diviene in seguito a ciò una semplice cosa tra le cose. Di conseguenza, qualsiasi buon musulmano deve sbarazzarsene, come se si trattasse di un male incurabile e devastante.
 
Il fatto è che i monoteismi non si completano. Al contrario, si contraddicono e divergono in relazione all’essenziale: Gesù Cristo, per esempio, ha radicalmente cambiato il concetto di Dio nell’ebraismo. Il Dio dei cristiani è uscito dall’ambito dell’astrazione, è invece incarnato. Inoltre, non è più l’uomo che muore per Dio, ma è Dio che si sacrifica per l’uomo. E poi c’è il problema del Corano. Se la Bibbia si rivolge al popolo eletto, il Corano si rivolge nello stesso modo a una umma, designata come «la preferita tra tutte le nazioni».
 
Così, l’esperienza vissuta sulle sponde orientale del Mediterraneo dimostra che i monoteismi hanno un ruolo distruttivo, non soltanto sul piano politico, ma anche su quello umano e culturale. E il migliore esempio è quello di al Quds (Gerusalemme): la città sacra per tre religioni monoteistiche risulta oggi la più oscurantista e la più profanatrice, con il suo disprezzo per gli esseri umani, i loro diritti e le loro libertà, così come per le loro opere e la loro creatività.
 
Premesso tutto ciò, non intendo dire che sia preclusa in assoluto la possibilità di provare a costituire la democrazia sulle sponde orientali del Mediterraneo (regione che vide e visse la nascita della scrittura). Voglio solo esporre e mettere l’accento sulla necessità di superare l’idea di una semplice coabitazione politica e l’ipocrisia del nostro linguaggio quando parliamo dei rapporti tra l’Islam e la democrazia da un lato e dei tre monoteismi dall’altro.
 
Sono convinto che sarebbe impossibile istituire la democrazia in seno all’Islam senza una netta separazione tra sfera politica e sfera religiosa, tra Stato e Rivelazione. Senza questa separazione non potrebbero esservi nell’ambito della società musulmana autentiche eguaglianze, né giustizia, né libertà.
 
Questa separazione non deve comportare l’abolizione o l’annullamento della fede dell’individuo o del suo bisogno di credere. La fede resta una questione personale frutto della scelta del singolo, dell’individuo. Ma è una scelta personale e non un diktat imposto dalla società o dallo Stato. Di conseguenza, la separazione tra ambito politico e religioso potrebbe dare origine a una società che non sarebbe atea a fortiori, ma a una società nella quale gli individui sarebbero liberi in relazione alla fede o all’osservanza dei principi religiosi, eguali come cittadini con gli stessi doveri e gli stessi diritti.
 
Altrimenti, l’altro, il diverso, nei paesi arabo-musulmani e oggi in Israele, paese che si trova nel cuore del mondo arabo-musulmano, resterà sempre un semplice vassallo o un subordinato, sottomesso, assoggettato ed emarginato come se non esistesse che in potenza. Un non-essere, un semplice nome, una piccola fotografia incollata su un documento, di identità, soltanto a parole.
 
In conclusione, senza la democrazia, senza separazione tra religione e Stato, i popoli di questa regione della Terra continueranno a muoversi nell’ambito di un sistema teocratico o semi-tribale, per non dire razzista, che rinnega e rifiuta colui che è caratterizzato da una diversità, colui che si rivela diverso. Senza la democrazia, ogni individuo sarebbe come una palla tra le mani di un Dio guidato dai soldi, letto e commentato «alla luce» della violenza e del dispotismo.
 
[Pubblicato su L’ESPRESSO di giovedì 29 giugno 2006, p.114.]


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