Riprendiamo da "Internazionale" questa brevissima nota di lettura sul nuovo libro dell'autore di Superwoobinda e su altri libri-diario: "storie difficili... su una società che ti fa credere onnipotente finché non esci da un'inutile scuola e che poi ti lascia nella merda"
L’era dei precari
La condizione di lavoratore precario è al centro di molti libri recenti: diari, saggi, inchieste, romanzi scritti da letterati e non da sociologi o economisti. Tra questi, il libro di Nove, scrittore che riserva sempre delle sorprese anche se ha maestri a volte discutibili (vedi la bibliografia), è una raccolta di interviste commentate: Aldo Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese…, Einaudi (Stile libero) 2006 (176 pagine, 12,50 euro).
Emerge un quadro impressionante, anche se non vi si scopre nulla che non si sapesse già, così come accade col diario di Angelo Ferracault Le risorse umane (Feltrinelli), che allarga al tema del lavoro oggi, al romanzo di Mario Desiat Vita precaria e amore eterno (Mondadori), migliore quando parla di amore, al diario-romanzo di Giovanni Accardo Un anno di corsa (Sironi) e via dicendo, ugualmente significativi.
Storie vere, storie difficili, storie obbligatoriamente “picaresche” sull’arte di arrangiarsi in una società che ti fa credere onnipotente finché non esci da un’inutile scuola e che poi ti lascia nella merda. Colpisce che non ci si interroghi di più sul perché, sul senso di un’economia assurda, in questi libri così degni d’attenzione, e che da questa condizione, condivisa da centinaia di migliaia di giovani, quasi tutti, non scaturiscano movimenti e rivolte.
Riportiamo il retro di copertina del libro di Aldo Nove
“Quando scrissi Superwoobinda, alcuni anni fa, volevo delineare una generazione priva di futuro. Il futuro, purtroppo, è arrivato” (Aldo Nove)
Questa non è fiction. È realtà. La realtà del lavoro oggi. La parte non protetta, debole, insicura. Una faccenda che riguarda tutti. Un libro composto di interviste affilate come lame a giovani e non piú giovani, cui si affianca ogni volta il commento e racconto di Aldo Nove sul sogno perduto di una generazione di adulti costretti a forza a rimanere bambini.
Persone vere, mai raccontate però. Chi lavora in agenzie web, chi fa il pastore precario, chi vive flessibilità di ogni genere, chi rimane stagista a vita, chi a vent’anni fa un lavoro “di relazioni e di successo”, chi lavora in uno studio da avvocato ma si mantiene facendo il cameriere, chi fa il part-time in un museo. Lavoratori per Internet, lavoratori interinali… E “quarantenni narcotizzati da una quotidianità sovrastante”, per i quali è sempre piú difficile permettersi di fare figli. Aldo Nove usa qui la scrittura per mettere a nudo la realtà, nel modo piú semplice e senza fronzoli. Affiancando ogni volta alle “cose viste” il suo racconto-commento, sommesso e radicale. Un’inchiesta coraggiosa e fuori dal coro, una lettura che davvero toglie il fiato.
Un docudrama italiano, un reportage aspro delicato e struggente. I conti definitivi con i sogni, le autoillusioni, le idee, le sconfitte e l’orgoglio della generazione di cui, con questo libro, Aldo Nove diventa l’autentico portavoce.
Roberta: quando insegnare diventa un lusso.
Alessandra: il mestiere di grafico pubblicitario dopo gli anni Ottanta.
Domenico: si può essere pastori con partita Iva?
Riccardo: i lavoratori della televisione, oggi: “manovalanza intellettuale riciclabile come plastica”.
Angelo e Armando: “classe operaia” e “globalizzazione”: funziona?
Leonardo: Dotcom e “feudalesimo di ritorno”: cronaca di un disastro annunciato.
Cilia: un primo scontro frontale con le agenzie interinali.
Marco: un secondo scontro frontale con le agenzie interinali.
Maria: la figlia orfana della “grande bolla”.
Storia di Fabio: un “antagonista” del XXI secolo.
Maria Giovanna: il corpo come merce, storia molto antica ma sempre attuale.
Edoardo: scuola contro Pepsi-Cola.
Luigi: Marco Biagi, chi era costui?
Carlo: “Mi chiamo Carlo, sono di Caltagirone, mi rompo il culo a lavorare diciotto ore al giorno, ma c’è gente che anche volendo non può farlo, perché lavoro non ce n’è”