Per salvare l’Italia facciamo come ha fatto l’Argentina

Poco più di un anno fa (febbraio 2011) il Sig. Monti in una intervista (ascoltabile sul sito http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=nTHN0yitxBU#!) affermava: “Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti della sovranità nazionali a un livello comunitario. E’ chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronte a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c’è una crisi in atto visibile, conclamata”… “Abbiamo bisogno delle crisi per fare passi avanti”.

Come si fa ad affidare il Governo di un Paese a chi ha dichiarato di volerlo distruggere? Eppure, nonostante gli “sforzi” degli ultimi governi, culminati nel salasso fiscale imposto dal Governo Monti (che, prima di dimettersi, ha già annunciato una nuova imposta per il 2013: la Tares), la storia ci ha insegnato che, anche in situazioni di crisi economica estrema, una nazione può risollevarsi, adottando politiche di gestione corrette, senza essere costretta a soggiogarsi alle imposizioni degli speculatori internazionali.

Lo ha dimostrato il Giappone, che ha un debito più alto del nostro, ma non è a rischio fallimento e produce moneta propria. Lo ha dimostrato l’Argentina, che è riuscita a fronteggiare una crisi di dimensioni storiche slegandosi dal dollaro.

Perché, allora, non cercare di risolvere la crisi dell’Italia non con politiche di austerity imposte dal Fondo monetario internazionale (Fmi), dalla Banca centrale europea Bce) e dall’Unione Europea, ma con investimenti pubblici e con iniziative serie e innovative, prima fra tutte, l’uscita anticipata dall’euro?

In realtà, la validità di un piano per il salvataggio dell’Italia è già stata dimostrata dagli esperti di Bank of America, Athanasios Vamvakidis e David Woo, che qualche mese fa hanno effettuato uno studio sulle conseguenze che avrebbe l’uscita dell’Italia dall’euro.

Secondo i due economisti, l’Italia avrebbe diversi vantaggi nell’abbandonare volontariamente l’euro, a patto che ciò avvenga prima che siano i mercati a imporre tale decisione. L’Italia godrebbe di “benefici in termini di miglioramento della competitività, crescita economica e finanza pubblica”. Inoltre, non si troverebbe in una posizione vincolata e limitativa del potere decisionale, come avviene oggi in Grecia.

L’eventuale uscita dall’euro, secondo la Merrill Lynch, oltre a rendere possibile, attraverso la svalutazione, il riequilibrio della bilancia commerciale e, in prospettiva, una crescita guidata dalle esportazioni, avrebbe effetti benefici anche sui tassi di interesse, poiché i mercati sarebbero rassicurati dal ritorno alle monete nazionali.

Ma, allora, perché non uscire dall’euro? Di fatto, restare nell’euro non conviene al nostro Paese, ma a Paesi come la Germania, ai quali fa comodo la permanenza nell’euro dei PIIGS (come vengono oggi carinamente definiti i Paesi caratterizzati da situazioni finanziarie “non virtuose”). In base agli studi fatti, ipotizzando un ritorno alla lira, si avrebbe una svalutazione rispetto all’euro di “appena” l’11% e una rivalutazione del marco tedesco del 15%. In questo caso Irlanda e Italia, ad esempio, avrebbero notevoli benefici dall’uscita dalla moneta unica, mentre la Germania verrebbe duramente colpita (con un Pil a -7%).

La simulazione di un fenomeno così complesso non è semplice (ma, allora, perché tutta l’economia mondiale si basa su queste simulazioni che danno poi come esito i rating?). Resta il fatto che l’euro, che avrebbe dovuto essere il primo passo verso gli Stati Uniti d’Europa, in questo momento non è altro che uno strumento per favorire mere speculazioni internazionali.

Gli studi hanno dimostrato che il ‘mix’ monetario favorisce una realtà economica estremamente più dinamica, consentendo ai singoli Stati una competitività che risulta assente in una situazione di moneta unica. Ciò deriva dal fatto importantissimo che tutti i Paesi della comunità hanno economie differenti.

Non sono solo teorie e la storia recente lo prova. L’Argentina ha voluto credere alla teoria del moltiplicatore di Keynes (che sembra essere sconosciuto al nostro Primo ministro) e, dopo aver attraversato la più grave crisi che si ricordi, ha chiuso i conti con i suoi creditori internazionali con 16 mesi di anticipo, presentandosi alla sede del Fondo monetario internazionale con un gigantesco assegno da 12 miliardi di euro (il cui importo era stato realmente versato poche ore prima). (a destra, l’Argentina, foto tratta da meteoweb.eu)

La presidentessa Kirchner, con questo gesto simbolico, ha dimostrato con i fatti che le strategie suggerite da alcuni economisti, miranti più al proprio interesse e a quello di certe lobby, piuttosto che agli interessi del Paese che avrebbero dovuto aiutare, erano sbagliate. Cristina Kirchner ha fatto vedere al mondo intero che anche un Paese come l’Argentina, che aveva accumulato un default di 112 miliardi di dollari, poteva uscire dalla crisi. A patto, ovviamente, di adottare le scelte giuste.

Nel 2003, l’allora presidente Nestor Kirchner, marito dell’attuale presidente, dopo anni di crisi profonda, ebbe il coraggio di rifiutarsi di accettare le proposte (o forse sarebbe meglio definirle imposizioni) del Presidente americano G.W.Bush e rifiutò le pressioni che questo esercitava in accordo con il Fondo monetario internazionale.

Nel 2007, la moglie, Cristina Fernadez de Kirchner (nella foto a sinistra, tratta da digitalgroup.info), neoeletta, mostrò di aver appreso gli insegnamenti di economisti di grande spessore come Roberto Lavagna, il “ministro del miracolo”, e continuò sulla strada intrapresa dal marito applicando la teoria del moltiplicatore keynesiano. Grazie alle misure adottate tra il 2006 e il 2009 la soglia di povertà in Argentina diminuì dal 21% all’11,3% e fino al 9,6% nelle aree metropolitane.

L’Argentina, rifiutando di adottare le politiche suggerite dal Fondo monetario internazionale che prevedeva misure restrittive, rigore economico e austerità, è uscita dalla crisi slegandosi dal dollaro e oggi cresce a un ritmo del 9% all’anno.

L’Argentina ha avuto il coraggio di sfidare i colossi dell’economia mondiale, anche a costo di vedere il proprio rating, apparentemente senza valida motivazione, scendere di 5 livelli da “B” a “CC”, valutazione tanto anomala da costringere il direttore esecutivo di JP Morgan, Vladimir Werning, a riconoscere l’ingerenza da parte delle agenzie di rating sulle scelte politiche di uno Stato sovrano e ad affermare che si tratta di “un punto di svolta che sposta l’equilibrio di poteri tra stati e creditori privati a favore dei secondi”.

Uscire dalla crisi e dalla recessione senza affamare la popolazione e senza distruggere la propria produttività è possibile. E senza dover rinunciare alla propria sovranità nazionale o subire forme di commissariamento da parte di soggetti esterni, come sta, invece, avvenendo in Grecia e come qualcuno (stando alle sue parole del febbraio 2011) auspica che avvenga anche per l’Italia.

Ma, allora, perché il nostro Governo, sulla base di ciò che è avvenuto negli anni passati, non prende la decisione di uscire dall’euro? Studi come quello della banca di affari Merrill Lynch, insieme con alcuni tra i maggiori economisti internazionali come Alberto Bagnai, Paolo Barnard, Paul Krugman e Paul De Grauwe, solo per citarne alcuni, hanno confermato che all’Italia converrebbe uscire dall’euro adesso, e farlo prima dei altri.

Cosa comporterebbe questo? Riacquisire la propria sovranità monetaria, quindi stampare la lira e rimetterla nell’economia reale. E l’inflazione che subirebbe l’Italia potrebbe essere risolta in un periodo ragionevole. Certo, la Germania probabilmente ne subirebbe le conseguenze, anche perché la decisione del Belpaese, con ogni probabilità, scatenerebbe un effetto a catena e altri Paesi ci seguirebbero. Ma, in un poco tempo, l’Italia tornerebbe ad essere un Paese sovrano del proprio destino. E allora perché, nonostante i suggerimenti di famosi economisti e studiosi, i nostri governanti non ne parlano nemmeno?

La risposta, forse, è da cercare nelle parole del Sig. Monti del febbraio 2011. Tenere il nostro Paese in uno stato di grave crisi economica è lo strumento che ha deciso di adottare chi ci governa per costringerci a restare nell’euro pur sapendo che le conseguenze di tale scelta potrebbero essere disastrose per la maggior parte degli italiani.

 

 

 

 


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Poco più di un anno fa (febbraio 2011) il sig. Monti in una intervista (ascoltabile sul sito http://www. Youtube. Com/watch?feature=player_embedded&v=nthn0yitxbu#!) affermava: "non dobbiamo sorprenderci che l'europa abbia bisogno di crisi, di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell'europa sono per definizione cessioni di parti della sovranità nazionali a un livello comunitario. E' chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronte a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c'è una crisi in atto visibile, conclamata”. . . "abbiamo bisogno delle crisi per fare passi avanti".

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