I Mudhoney non saranno stati certamente dei campioni delle charts negli ultimi dieci anni, ma sporadicamente, e sempre con cognizione di causa, hanno saputo regalare i giusti promemoria per far si che oggi il loro Under A Billion Suns possa essere definito tutto fuorchè anacronistico
Mudhoney Under A Billion Suns (2006, Sub Pop)
TRACKLIST:
1 Where Is the Future
2 It Is Us
3 I Saw the Light
4 Endless Yesterday
5 Empty Shells
6 Hard on for War
7 Brief Celebration of Indifference
8 Let’s Drop In
9 On the Move
10 In Search Of
11 Blind Spots
Cosa vuol dire fare grunge nel 2006, a quarantanni suonati, dopo essere stati fra i capostipiti e padri fondatori del movimento principe del decennio scorso? Anacronistico direbbero alcuni. Probabile. Ma, vocabolario alla mano, anacronistico non è altro che qualcosa in contrasto coi tempi in cui si vive, dimenticato o da tempo non in uso. Ebbene, i Mudhoney non saranno stati certamente dei campioni delle charts negli ultimi dieci anni, ma sporadicamente, e sempre con cognizione di causa, hanno saputo regalare i giusti promemoria per far si che oggi il loro Under A Billion Suns possa essere definito tutto fuorchè anacronistico. Dato alle stampe nel mese di marzo, Under A Billion Suns (decimo lavoro dei Mudhoney) era stato a più riprese preannunciato come lalbum politico della band americana, ed effettivamente basta già una rapida occhiata ai titoli dei brani per intravedere ed immaginare una vena polemica decisamente nuova per i Mudhoney. Where Is The Future si/ci domanda Mark Arm, rivolgendo la domanda anche a fantomatici interlocutori che non è difficile individuare nei politici (o sarebbe meglio dire IL politico ) americani: Where is the future that was promised us / Where is the future for everyone / Where is the future that was promised us / Where is our future of fun. E poi I Saw The Light, Endless Yesterday, Hard On For War e Lets Drop In, una sequenza di brani in cui è facile scorgere il tema comune della guerra, sfruttato e inflazionato come pochi altri ma sempre deffetto. Se riguardo ai testi ci troviamo quindi di fronte a parabole compositive nuove per la band, che neanche ai bei tempi aveva fatto della propria musica una valvola di sfogo politico così evidente, dal punto di vista strumentale invece la formula scelta è sempre la stessa: la base ritmica del batterista Dan Peters è sempre di primissimo livello e le schitarrate acide ed abrasive di Steve Turner percuotono i timpani dal primo allultimo minuto, il tutto condito da quella salsa garage-punk marchio di fabbrica dei Mudhoney ed eredità degli Stooges. Unica new entry la sessione di fiati che fa la sua comparsa in più di un episodio.
Capitolo a parte merita poi la voce di Arm, che sembra non aver perso un grammo dellincisività del passato, intento anche qui in urla viscerali e ululati primordiali. Nulla di nuovo sotto il sole dunque, ogni traccia è già presente a spezzoni nella nostra collezione di dischi alla voce alternative rock 90, ora in un album dei Melvins ora in uno dei Soundgarden o degli stessi Mudhoney, ma Mark Arm e soci ci ricordano come limportante non è solo rinnovarsi ed innovare, ma anche e soprattutto fare la musica che si ha nel sangue, senza smentirla ne stravolgerla, evitando inutili ed oltremodo ridicoli ricicli.