Catania-Verona, i torti della volontà Quando la passione si trasforma in colpa

Mettersi a guardare la partita del Catania sul campo del Verona, quest’oggi poco dopo mezzogiorno, era chiaramente una sfida. Da una parte, c’era la ragione: che suggeriva di non rinunciare a un buon pranzo domenicale, di approfittare della giornata di sole, di consolarsi insomma delle pene calcistiche lasciando finire in gloria, perlomeno, la lunga serie di feste e ponti che hanno allietato questo scorcio d’aprile.

Dall’altra, però, c’era la volontà. Cieca, ostinata, illogica. Sempre lì a sussurrarci che, in fondo, se avessimo fatto bottino pieno al Bentegodi, ci saremmo portati a due soli punti dal Bologna. E che la quota salvezza quest’anno è bassa come non mai. E che magari il cambio di allenatore potrebbe aver dato alla squadra, inaspettatamente, lo stimolo per riscuotersi, per tornare a essere se stessa.

Ha avuto la meglio – che ve lo dico a fare? – la volontà. Il che, per noi che la partita possiamo solo soffrirla fuori dal campo, è del resto del tutto scontato. Peccato che in campo sia andata diversamente. E lo si è capito fin dal primo minuto.

Anziché disporsi in campo con saggezza, come la ragione, con il suo sano e costruttivo pessimismo, avrebbe imposto; anziché aspettare il momento opportuno per aggredire l’avversario (e aggredirlo, allora, con l’ottimismo della volontà, con la rabbia di chi questa partita doveva vincerla a ogni costo) i nostri hanno fin dall’inizio mostrato un approccio irragionevole, dissennatamente velleitario, alla partita.

Il solito Monzon, collocato sulla fascia sinistra della nostra difesa (quella in cui operava il velocissimo, sebbene acciaccato, Iturbe) ha subito pensato di andarsene a spasso da qualche altra parte del campo. E il povero Rolin, abbandonando la posizione centrale, ha dovuto quindi coprire la fascia per fronteggiare il suddetto Iturbe, riuscendo a farlo solo con un fallo abbastanza rude. Così, dopo appena un minuto di gioco, avendo incredibilmente subito quella specie di contropiede, il Catania si è già trovato con un difensore ammonito. Mentre i padroni di casa si erano già resi conto di poter far polpette degli incauti avversari.

È bastato un minuto, insomma, per capire che la musica non sarebbe stata la stessa della partita con la Sampdoria. Partita che, diciamolo, qualche illusione l’aveva data. Quando sabato scorso abbiamo visto Leto – uno dei giocatori più macchinosi, imprecisi, irritanti che io ricordi con la maglia rossazzurra – invertire per un momento il corso delle cose, e battere il portiere avversario con una rovesciata secca ed elegante, avevamo magari pensato, contro ogni logica, che questa squadra potesse ancora trovare la propria strada, e che forse gli uomini che avevano finora mancato tutti gli appuntamenti avrebbero potuto ancora guidarla verso un’insperata salvezza.

Quando però oggi abbiamo visto Monzon risbagliare la stessa posizione che ha sbagliato cento volte dall’inizio del campionato; quando in attacco abbiamo visto Barrientos intestardirsi ancora a cercare l’uno contro uno, a rallentare il gioco, a cercare i compagni con tocchi molli, leziosi e prevedibili, a risbagliare insomma tutto ciò che sbaglia sistematicamente da un anno a questa parte; allora abbiamo capito che, dalla volontà senza un pizzico di ragione, dall’ostinato continuare a sbattere la testa contro lo stesso muro, non sarebbe venuto neanche oggi nulla di buono.

Il Verona ce ne ha fatti quattro nella partita che avremmo dovuto vincere a ogni costo; e così sia, per quest’anno. Il guaio è che il presidente Pulvirenti – in un’ostinata difesa, pare, dei diritti inviolabili della propria volontà – ha già manifestato l’intenzione, per il futuro, di dare maggior spazio in società a Pablo Cosentino. Ovvero al dirigente che, per ciò almeno che la ragione può dirci, porta la responsabilità del fallimento della presente stagione. Fallimento che è certo colpa di giocatori e allenatori; ma che non sarebbe stato così disastroso se a gennaio, di fronte alle falle evidenti dell’organico, si fosse provato a rafforzare a dovere la squadra.

È questo che temo: che, andata quest’anno come è andata, ci si trascini ancora per il futuro, per un malinteso senso d’orgoglio, gli sbagli commessi e già pagati a caro prezzo. Che si rimanga prigionieri dell’approccio velleitario con cui quest’anno si è affrontato quasi ogni avversario, quasi ogni problema.

Salvo che, s’intende, dietro tutto questo non ci sia una ragione che non riesco a vedere. Sarebbe, certamente, molto più logico. Ma anche, forse, più preoccupante.


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