Nel mirino, ormai dal 2012, una ditta di Belpasso specializzata nella lavorazione della pietra lavica. Tra contanti, assegni, cambiali e mezzi d'opera sarebbero stati versati 1,7 milioni di euro. «Era la nostra cosa», dicevano. Guarda il video
Pizzo a imprenditore, in manette famiglia ergastolano Moglie e figli eseguivano ordini di Giovanni Rapisarda
Moglie e due figli di un esponente della famiglia di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano, che sta scontando un ergastolo per omicidio, sono stati arrestati da carabinieri di Catania per estorsione aggravata dal metodo mafioso. Nei loro confronti è stata eseguita un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal giudice su richiesta della Direzione distrettuale antimafia etnea. Al centro dell’inchiesta il presunto taglieggiamento a un imprenditore del settore dell’estrazione e della lavorazione di pietra lavica che avrebbe pagato il pizzo dal 2012, versando complessivamente 1,7 milioni di euro tra contanti, assegni, cambiali e mezzi d’opera. Secondo l’accusa, a dare disposizioni alla sua famiglia dal carcere sarebbe stato Giovanni Rapisarda, 64 anni, ergastolano, e destinatario della stessa ordinanza cautelare emessa per la moglie e i due figli che erano gli esecutori dei suoi ordini. In carcere sono stati condotti Santa Carmela Corso, di 61 anni, e Giuseppe Rapisarda, di 34, arrestati in flagranza dai carabinieri dopo che avevano ritirato una tangente da 2.000 euro dalla vittima dell’estorsione, e Valerio Rapisarda, di 30 anni.
Le indagini erano state avviate dopo che militari dell’Arma della compagnia di Paternò avevano notato diverse e frequenti visite dei due fratelli Rapisarda nella sede di una ditta di Belpasso dove sono state installate delle telecamere nascoste. «La vittima – ricostruisce la procura – dopo l’acquisizione di un ramo dell’azienda già di proprietà di altri componenti della famiglia Rapisarda, pur avendo già consegnato 700mila euro negli ultimi 10 anni per crediti illecitamente vantati di 1.000.000 di euro, riceveva un’ulteriore richiesta estorsiva di 700mila euro, dilazionati in cinque anni con il pagamento di una somma tra i 1.500 e 3.000 euro settimanali o, in alternativa, la cessione della ditta».
In uno degli ultimi incontri con la vittima Giuseppe Rapisarda avrebbe spiegato all’imprenditore che doveva pagare perché la cava «era la nostra cosa» e che erano «dodici-tredici anni e dobbiamo chiudere sta partita e ricordandogli che «mio padre il suo piacere è questo, perché qui era la cosa sua».