Terrorismo, 300 monitorati nelle carceri italiane «No a isolamento, servono gli imam negli istituti»

«Per i soggetti radicalizzati e a rischio terrorismo il carcere duro e l’isolamento non servono, piuttosto bisogna fare entrare nelle prigioni imam e guide religiose islamiche moderate, così come sono accettati preti e frati». Marco Cannavicci, psicologo e criminologo, è uno dei 19 componenti della speciale commissione che domani consegnerà al premier Paolo Gentiloni una prima relazione su come prevenire l’estremismo jihadista. Insieme a lui professori universitari, giornalisti, esperti di sicurezza per quattro mesi hanno ascoltato i referenti delle comunità islamiche, il Ros dei carabinieri, la polizia, gli imam, i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. 

«Il radicalismo in Italia fiorisce grazie a due principali fonti di interazione: le carceri e il web», spiega Canovacci che cita i numeri forniti proprio dal Dap. «Su 54mila detenuti nelle nostre prigioni, 18mila sono stranieri; di questi 11mila sono musulmani e 300 sono quelli monitorati con attenzione perché vicini a posizioni radicali». Anis Amri, l’attentatore di Berlino, era uno di questi: dal 2011 al 2015 ha scontato la sua pena tra gli istituti di Catania, Enna, Sciacca, Agrigento e Palermo. E da Catania sarebbe partita anche un’informativa per segnalare la pericolosità del soggetto. «Probabilmente – sottolinea Cannavicci – in Germania e in Francia non hanno prestato la stessa attenzione che Amri ha avuto in Italia. Non è un mistero che le nostre capacità investigative, perfezionate nella lotta alle criminalità organizzate, possano contare su strutture efficientissime, come il Ros dei carabinieri, che in altri Paesi d’Europa non esistono».

Come si riconosce un soggetto a rischio radicalizzazione in un carcere? In diverse occasioni e in più istituti penitenziari, all’indomani degli attentati in Europa, sono stati registrati festeggiamenti da parte di detenuti di fede islamica. «Ma questo, da solo, non significa niente – precisa lo psicologo – può trattarsi semplicemente di una manifestazione di ribellione, di protesta, di rivincita. Quello che va monitorato attentamente è il cambiamento dell’atteggiamento religioso, se da blando diventa attento, formale, rigoroso. A cui si deve sommare una disponibilità alla violenza». I motivi per cui alcuni detenuti imboccano questa strada sono molteplici. «Perché si cerca un cambiamento di vita, un’identità che manca, un percorso per espiare peccati o una vita precedente, o semplicemente per cameratismo, per sentirsi accettati in un gruppo».

Finora, di fronte a soggetti radicalizzati o a rischio radicalizzazione, il sistema penitenziario italiano si è interrogato su quale tra due strade percorrere: l’isolamento e il concentramento di questi soggetti in carceri speciali o la divisione in diversi istituti. «Nel primo caso – spiega il criminologo – si cerca di evitare il contagio della radicalizzazione che però inevitabilmente si rafforzerà in queste persone, le cui intenzioni, una volta usciti, saranno ancora più portenti. Nel secondo caso non si incontrano tra loro, ma il rischio è che vengano radicalizzate nuove persone, compresi italiani, come già successo». Al momento in Italia è prevalsa la prima tesi, come dimostra la creazione di quella che è stata definita la Guantanamo calabra, nel carcere di Rossano. «Ma non è l’unico istituto speciale per presunti terroristi – precisa Cannavicci – anche se il Dap non si dilunga su questo aspetto». 

In ogni caso, per lo psicologo, che si fa portavoce di una prospettiva ormai salda tra i colleghi che si occupano di terrorismo, entrambe le vie – isolamento e divisione in diversi istituti – non servono. «L’unica soluzione potrebbe essere far entrare nelle carceri guide religiose islamiche moderate. Solo gli imam, che rappresentano un’autorità, sono in grado di intervenire e smontare convinzioni profonde, attraverso il dialogo e una presenza costante». Al momento, però, non esiste alcun accordo tra il sistema penitenziario italiano e gli organismi di riferimento dei musulmani, come l‘Unione delle comunità islamiche. «È urgente creare un elenco di guide formate e monitorate». Anche perché il problema rischia di accentuarsi ulteriormente nei prossimi mesi. «L’Isis è in difficoltà sul campo di battaglia di Siria e Iraq – continua il criminologo – molti foreign fighters torneranno in Europa, anche in Italia. E al primo reato saranno chiusi in carcere. Queste persone vanno recuperate lì dentro, reimmetterli nella società è un pericolo per la convivenza civile, anche perché la stessa società non è minimamente in grado di cambiarli, di integrarli. Non succede per i carcerati comuni, figuriamoci per i radicalizzati».

Se così non fosse, di fronte a nuova ostilità e nuova emarginazione, «il rancore per l’Occidente si trasformerà in volontà di colpire, alla vendetta personale si sommerà quella più generale per i fratelli musulmani uccisi in tante parti del mondo, una miscela non più controllabile. A quel punto non serve una rete di persone per agire, basta anche un input, un’informazione data attraverso il web e il tempo necessario a procurarsi delle armi. Così un radicalizzato sarà diventato un terrorista». 

La relazione che oggi viene consegnata al presidente del Consiglio verrà sottoposta al vaglio del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) e successivamente dovrebbe essere trasmessa al Parlamento, nell’ambito della discussione sulle proposte di legge di prevenzione del radicalismo. Un testo, a firma dei deputati Stefano Dambruoso (Scelta Civica) e Andrea Manciulli (Pd), è fermo alla Camera da un anno. 


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