Via D’Amelio, la nuova relazione della commissione Antimafia «Depistaggio ancora in corso, strage non solo di Cosa nostra»

«La sensazione è che questo depistaggio non sia mai finito». Sono queste le parole scelte dal presidente della commissione regionale Antimafia Claudio Fava per introdurre la nuova relazione sui fatti accaduti «prima, durante e dopo» la strage di via D’Amelio. Si tratta del secondo lavoro in tre anni dedicato dalla commissione ai tantissimi dubbi che ancora oggi caratterizzano la storia dell’attentato che portò alla morte del giudice Paolo Borsellino e del personale della scorta. «La necessità deriva dalla percezione di un perimetro di reticenze e forzature investigative che andava oltre la Sicilia e investiva la dimensione nazionale», ha aggiunto Fava. Nel documento di 122 pagine, che questo pomeriggio è stato votato all’unanimità da tutti i deputati che compongono l’organismo parlamentare, sono stati ripercorsi i passaggi più ambigui e oscuri di una storia che molti elementi suggeriscono sia iniziata più di 29 anni anni fa. Da prima del momento in cui la bomba di via D’Amelio, e precedentemente quella di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone, fu azionata. 

«Di quelle stragi se ne parlò in diverse riunioni a Enna nel 1991», ha ricordato Fava. Quegli incontri rappresentano uno dei pilastri della tesi che vede in Cosa nostra soltanto una delle entità coinvolte nel piano stragista. A prendervi parte in un primo momento furono soltanto i vertici della cupola: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Madonia e Nitto Santapaola. E in quella sede, secondo diversi collaboratori che a posteriori hanno ricostruito quei fatti, venne comunicata l’esigenza di avviare una fase di destabilizzazione del Paese, che sarebbe passato per gli attentati e che avrebbe avuto l’obiettivo di preparare il terreno per un cambio di scenario politico che, per Cosa nostra, avrebbe significato anche un mutamento di interlocutori. «Di quelle riunioni era a conoscenza anche Maurizio Avola», ha detto Fava nel corso della conferenza stampa di oggi. 

Il riferimento non è casuale: il killer di Cosa nostra etnea, da decenni collaboratore di giustizia, di recente ha parlato della strage di via D’Amelio con una serie di dichiarazioni pubblicate dal giornalista Michele Santoro nel suo ultimo libro. Nella relazione della commissione, vengono ripercorsi i punti deboli del racconto di Avola. Il pentito – definito «un nuovo Scarantino» (il falso pentito le cui versioni per anni hanno condizionato la ricerca della verità, ndr) – ha sostenuto di avere preso parte alla strage. Di essere stato presente in via D’Amelio travestito da agente della polizia e di avere dato l’ok al boss catanese Aldo Ercolano, per azionare l’ordigno. Un’ipotesi che però non è verosimile, a partire dal fatto che il giorno precedente alla strage Avola era a Catania con un braccio ingessato. «Probabilmente tutto questo non accade per caso – ha commentato Fava – probabilmente c’è ancora una volta il tentativo di ridurre tutto a una questione tra giudici e Cosa nostra, senza nient’altro nel mezzo. Delle riunioni a Enna, Avola ne aveva già parlato con i magistrati».

Tra le persone audite in commissione Antimafia c’è stato anche Bruno Contrada, il poliziotto che ha legato la propria attività professionale a Palermo e che ha trascorso gli ultimi dieci anni di carriera tra le file del Sisde, i servizi segreti interni. Il coinvolgimento del Sisde nelle indagini su via D’Amelio rappresenta uno dei punti poco chiari di questa storia: la legge, infatti, non prevede che i servizi possano fare attività investigativa, ma a volere un contributo di Contrada – arrestato nel dicembre del ’92 per concorso esterno in associazione mafiosa e poi condannato – fu il procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra. «Il mancato coordinamento tra le procure ha dell’incredibile, l’investigatore di punta scelto da Caltanissetta verrà arrestato dai magistrati di Palermo pochi mesi dopo», ha sottolineato Fava. Aggiungendo come sia strano che gli organi investigativi presenti in Sicilia, tra cui la Dia da poco costituita, non vennero coinvolti direttamente nelle indagini, per lasciare spazio ai servizi segreti e a poliziotti – come Arnaldo La Barbera – dal lungo curriculum ma con poca esperienza nel contrasto a Cosa nostra. 

«Questa commissione ha posto le domande che ancora oggi sono importanti e le risposte possono arrivare soltanto da organi investigativi e ciò invece finora non è stato fatto – ha dichiarato Fava -. Serve una verità storica, tutti gli italiani hanno diritto ad avere queste risposte, non importa se alcuni protagonisti di quell’epoca non ci sono più. Sarebbe bello se qualche magistrato ammettesse di avere sbagliato», ha incalzato il presidente dell’Antimafia. Che ha fatto il nome anche di Pietro Giammanco, il procuratore capo di Palermo con cui Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino dopo ebbero diversi scontri sulle modalità utilizzate per affrontare le indagini di mafia. Giammanco chiamò Borsellino la mattina del 19 luglio ’92 per dirgli che si sarebbe occupato delle inchieste più importanti su Cosa nostra, quando al giudice restavano soltanto dieci ore. 

«Questa storia non è mai finita e i depistaggi sono ancora in corso», ha detto in audizione l’attuale procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato. Una tesi totalmente condivisa dalla commissione nelle conclusioni della relazione: «Non deve stupire che oscuri meccanismi, oggi, si pongano strenuamente in difesa della ricostruzione falsa e consolatoria proposta da Scarantino e dai suoi suggeritori – si legge nella relazione – Allargare lo sguardo su cosa accadde in quei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, sulle inquietudini del giudice Borsellino, su ciò che aveva intuito o saputo e che si preparava a dire; raccontare quella strage non come un ultimo disperato colpo di coda di Cosa nostra ma come il punto d’arrivo di un disegno più ambizioso e devastante per i destini del Paese: insomma – prosegue l’organismo parlamentare – parlare di via D’Amelio sapendo di non poter parlare solo di mafia è cosa che fa ancora paura».


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