«La famiglia vigilerà molto, ci opporremo a qualsiasi ulteriore perdita di tempo». È una promessa amara quella della figlia del magistrato ucciso nel ’92, dopo il rinvio a fine mese della nuova udienza contro i tre poliziotti accusati del depistaggio
Via D’Amelio, ancora agli albori processo per calunnia Fiammetta Borsellino: «Sono delusa dalle lungaggini»
«Non posso nascondere una certa delusione per questo rinvio delle questioni preliminari a un’ennesima data, che è quella del 26 novembre». Sono amare le parole pronunciate da Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio, fuori dall’aula di corte d’assise Giuseppe Alessi del tribunale di Caltanissetta, dove si sta celebrando il processo per concorso in calunnia aggravata ai poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Oggi, infatti, si è proceduto nuovamente con l’esame delle richieste di costituzione di parte civile, seguite dalla decisione del giudice di rinviare a fine mese. «Mi aspetto celerità perché è già passato troppo tempo e sinceramente il fatto che oggi non sia stato presentato neanche un calendario delle udienze, considerato che in questo processo ci sono più di cento testimoni e le liste sono tra l’altro conosciute dal collegio, mi fa un po’ stare male – ribatte Fiammetta Borsellino -. Perché il passaggio del tempo in questa vicenda processuale è stato deleterio e purtroppo ha fatto comodo a tutti coloro che questa verità non vogliono cercarla, quindi sinceramente oggi mi sarei aspettata più celerità, un rinvio delle questioni preliminari non a un’udienza che è fine mese ma un rinvio ad horas. Su questo la famiglia vigilerà molto e ci opporremo a qualsiasi ulteriore perdita di tempo».
Intanto, nel corso dell’udienza le difese hanno già anticipato le loro mosse rispetto alle richieste avanzate oggi, palesando una spaccatura sostanziale. «Crediamo che la presenza della parte civile possa essere utile per ricercare la verità. Non ci siamo opposti alla richiesta di costituzione di parte civile dei poliziotti e degli eredi dei poliziotti morti perché abbiamo difficoltà a concepire i poliziotti come parte processuale avversa a Mario Bo, devono essere presenti nel processo per vedere di ricostruire insieme la verità, ciò che accadde in quegli anni e durante quelle indagini. Non sono i poliziotti morti o i loro eredi i nostri avversari» osserva l’avvocato Nino Caleca, che insieme al collega Roberto Mangano rappresenta Bo. «Per quanto riguarda il ministero dell’Interno riteniamo che sia giustamente individuato come responsabile civile perché deve difendere i suoi uomini, dubito invece che possa essere contestualmente parte civile contro gli stessi poliziotti».
Di altro avviso l’avvocato che difende gli altri due imputati, Giuseppe Seminara, che ha manifestato l’intenzione di opporsi a tutte le costituzioni di parte civile, fatta eccezione per due: «Non mi opporrò a quella dei due soggetti che sono inseriti nel nostro capo d’imputazione, cioè Gaetano Scotto e i parenti di Salvatore Profeta, perché è un processo di calunnia aggravata, non è un processo di depistaggio – ci tiene a precisare a più riprese -. È una norma che è stata introdotta recentemente quella sul depistaggio e non può essere contestata per fatti che hanno più di 20 anni». I tre poliziotti, coinvolti a vario titolo nelle indagini per la strage di via D’Amelio, fecero parte del gruppo capeggiato all’epoca da Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile e tra i primi a indagare sui fatti del 19 luglio ’92. E per i quali la procura ha chiesto, in fase di udienza preliminare, l’aggravante del 416 bis comma 1 per aver agito con l’intenzione di favorire Cosa nostra. Un processo davvero senza precedenti, quello che – anche se a rilento – sta prendendo le mosse a Caltanissetta, dove un pezzo dello Stato si ritrova imputato di aver favorito la mafia, la stessa che ha alcuni suoi ex esponenti che chiedono ora di costituirsi parte civile.
È vero che, come ha sottolineato in più occasioni la difesa, l’accusa nei loro confronti non è propriamente di depistaggio. Ma è tutto lì il cuore dei fatti di sangue di via D’Amelio e, soprattutto, di quelli che seguirono all’indomani della strage. Una tela di bugie, omissioni, occultamenti, torture. Tutto parte dello stesso depistaggio che non ha permesso ancora, dopo 26 anni, di conoscere la verità su quel giorno e che ha partorito personaggi come quello di Vincenzo Scarantino, il finto pentito di via D’Amelio istruito ad arte anche da quei funzionari che oggi devono rispondere di concorso in calunnia aggravata. Tra loro, non a caso, c’è Fabrizio Mattei, che – per sua ammissione nel corso del processo Borsellino e per verifica di un’accurata perizia grafologica – ha scritto di suo pugno dei post-it per aggiustare la versione che il finto pentito avrebbe dovuto ripetere, attribuendosi fintamente quegli scritti.
«I processi Borsellino 1 e 2 sono stati processi deviati, nel senso che si sono indirizzati verso un canale falso e fondato su presupposti falsi, che hanno portato alla condanna di soggetti innocenti rispetto alla strage di via D’Amelio – afferma in aula anche la pubblica accusa -. Non è stato un percorso errato, diciamo oggi, ma un processo che senza le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza nel 2008 non sarebbe mai arrivato a questo. Il giusto cammino non è stato percorso perché alcuni servitori dello Stato non hanno in realtà servito lo Stato, ma hanno fatto in modo che a Palermo non si arrivasse alla verità. Si imputa ai tre soggetti di aver deviato, occultato, impedito di poter arrivare proprio a quella verità».