Vezzosi a processo per duplice aggressione I legali: «Riconoscerà il figlio, ha il suo Dna»

Jeans scuri, camicia blu e spolverino in tinta. Occhiale da sole d’ordinanza. Fa così la sua apparizione nelle aule giudiziarie di via Crispi il noto cantante neomelodico etneo Gianni Vezzosi, presente al processo che lo vede imputato per una duplice aggressione. Ore di testimonianze che, da fuori, potrebbero sembrare materiale utile a riempire solo le pagine di gossip locale. Ma che invece nascondo una brutta storia, vera o presunta, con un bambino al centro. Un anno di vita, figlio illegittimo dell’artista e, senza ancora saperlo, causa scatenante di minacce e pestaggi, secondo l’accusa, che si sarebbero consumati in pieno centro, a Catania, tra la curiosità della folla. Che non è mai intervenuta.

Da sinistra: gli avvocati Gianfranco Alfarini e Ruggero Razza, Gianni Vezzosi

Tutto comincia più di un anno fa, secondo i testimoni dell’accusa. Quando Gianni Vezzosi, in crisi con la moglie Monica Lo Bello, ha una relazione con Luisa Luigia Consoli, oggi parte offesa nel processo. Dai due nasce un bambino che il cantante, poi riconciliatosi con la moglie, si sarebbe rifiutato di riconoscere. «Il mio assistito si è sottoposto volontariamente al test del Dna – spiega il legale dell’artista Gianfranco Alfarini – I risultati sono arrivati da poco. Il bambino è figlio suo e Vezzosi intende riconoscerlo, ma ancora non c’è stato il tempo materiale». A questo punto della storia entra in scena l’altra parte civile di oggi, Samuele Bombaci, amico della Consoli – detta Laila, anche lei cantante neomelodica – ed ex membro dello staff dell’omonima artista catanese Carmen Consoli. «Dopo tutto questo, ho perso anche il lavoro», spiega. Il testimone racconta di aver provato a far riconciliare i due, per amore del bambino, ma ottenendo in risposta da Vezzosi un lapidario «Fatti i cazzi tuoi».

In questo clima di tensione si sarebbero consumate, secondo le presunte vittime, le due aggressioni. La prima il 12 novembre 2012. «Ero con Laila al viale Mario Rapisardi quando Vezzossi arriva su una macchina, si ferma, scende, spinge dentro Laila minacciandola con un coltello e parte a tutta velocità». Bombaci racconta di aver recuperato la sua auto per inseguire i due e di aver trovato la donna, pochi metri più in là, con il segno della lama del coltello alla gola e «uno nella guancia, l’aveva picchiata». I due sporgono denuncia. Poco dopo arrivano le prime telefonate anonime di minacce di morte. «Volevano che ritirassi la denuncia», spiega l’uomo, riferendosi alla sua eventuale testimonianza in favore della Consoli.

Neanche un mese dopo, il 6 dicembre, avviene la seconda aggressione. A seguito della quale Vezzosi viene arrestato dai Carabinieri. «Ero in via Giovanni Di Prima con Laila Consoli e suo fratello. Volevamo pitturare una stanza per farci una sala prove. Verso le 19.30 io mi allontano per comprare un kebab e, in piazza Spirito Santo, vedo una Toyota Yaris che mi abbaglia con i fari. Dentro, seduto nel sedile posteriore, c’è Gianni Vezzosi. Credevo volesse salutarmi». E invece poco dopo, racconta Bombaci, sulla strada del rientro verso corso Sicilia, si sente afferrare dai piedi e cade riverso a faccia in giù. «Mi hanno calpestato e picchiato, forse con un oggetto di ferro in mano. Erano due uomini: uno mi teneva fermo e l’altro mi pestava. Uno era biondo, alto. Dell’altro ho visto solo i capelli ricci. Intorno intanto si era formata una gran folla, ma nessuno interveniva. I due uomini mi hanno detto “Queste te le manda Vezzosi, a testa ta scippamu e c’ha ramu e porci“».

Luisa Luigia Consoli, detta Laila, ex compagna di Vezzosi, e l’amico Samuel Bombaci. Entrambe parti civili nel processo

La serata dell’uomo si concluderà all’ospedale Vittorio Emanuele, dove è rimasto incosciente per tre giorni. Il suo bilancio sarà di due costole rotte, un polmone perforato, il setto nasale rotto in quattro pezzi, la mandibola spostata di due centimetri, la perdita del 40 per cento dell’udito. Durante il pestaggio, sul posto arriva Consoli. «Ho sentito solo che mi diceva “Samu, scappa!”». E’ la donna la prima ad andare a sporgere denuncia. In aula sarà sentita alla prossima udienza, a maggio.

Nell’attesa di identificare i due uomini, anche con i video di sorveglianza della zona, Vezzosi resta l’unico imputato. Tutta da provare è però la sua reale presenza all’aggressione, seppure dalla macchina dove i due raccontano di averlo visto, fuori dalla portata delle telecamere. Per dimostrarlo, accusa e difesa si scontrano su un numero di telefono. Un cellulare che, a quell’ora del 6 dicembre, avrebbe fatto parecchie telefonate e tutte agganciate a una cellula del viale Mario Rapisardi, distante dal luogo del reato. La prova che Vezzosi non poteva essere presente, secondo i suoi avvocati. Una circostanza irrilevante invece per l’accusa e i legali delle parti civili, le quali sostengono che in realtà il cellulare appartenga alla moglie del cantante.

Né il maresciallo dei Carabinieri sentito oggi né i fan e gli amici di Vezzosi sono riusciti a chiarire il passaggio fondamentale del processo. A quel numero di telefono, intestato alla moglie del cantante, pare rispondessero entrambi. In attesa degli altri testimoni – molti quelli della difesa, ancora tutti da sentire – il clima non accenna a calmarsi. «La scorsa domenica ho ricevuto degli sms di minaccia, sembra inviati da una cabina telefonica – conclude Samuele Bombaci – C’era scritto “Pezzo di bastardo ti ammazzo come un cane, pezzo di merda schifoso“».


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