Uranio impoverito, morto l’ex marò Cannizzo Aveva denunciato l’indifferenza dello Stato

Aveva promesso di decidere lui «quando morire, visto che non posso più scegliere quando vivere». Salvo Cannizzo, l’ex marò malato di tumore al cervello che lo scorso luglio aveva annunciato lo sciopero della chemioterapia, è morto ieri pomeriggio. Convinto da parenti, amici ed ex colleghi, aveva ripreso le cure per contrastare gli effetti devastanti della malattia che – sosteneva – era stata scatenata dall’esposizione all’uranio impoverito durante alcune missioni in Kosovo. «L’uranio degli americani ha fatto ammalare di tumore me e quattro dei miei compagni di squadra, in Kosovo, dove sono stato quattro volte dal 1999 al 2001. Senza che nessuno ci dicesse del pericolo, che gli americani invece conoscevano».

Nella sua lunga intervista rilasciata a CTzen, aveva denunciato l’indifferenza del ministero della Difesa. «Voglio vedere se al ministero hanno il coraggio di lasciarmi morire, sono duemila i militari nella mia situazione in Italia. E presto moriremo tutti, vogliamo almeno un indennizzo».
E adesso un altro membro di quella squadra si è aggiunto alla lunga lista ignorata dallo Stato.
«Nel 2000 a Djakovica, in Kosovo, ho visto un carro bombardato e con la carrozzeria dissolta. E degli americani, tempo dopo, che con una tuta da astronauta e un autorespiratore, portavano via delle munizioni. Ora so che era per le radiazioni dell’uranio impoverito, ma a quei tempi io e i miei compagni respiravamo quell’aria a pieni polmoni» Salvo Cannizzo36 anni, è un sergente in congedo da settembre 2011. Era nel battaglione San Marco, famoso tra i vari corpi della Marina militare italiana per la preparazione durissima, tanto da essere paragonato ai marines americani. «Ho un glioblastoma multiforme, un tumore al cervello di quarto grado. Ma ho deciso di non fare la chemio: voglio vedere se al ministero hanno il coraggio di lasciarmi morire, sono duemila i militari nella mia situazione in Italia. E presto moriremo tutti, vogliamo almeno un indennizzo» dichiara Salvo che, secondo i calcoli dei medici che lo hanno già operato più volte a Milano, ha solo tre mesi di vita. Era a capo di una squadra di nove elementi fino al settembre 2006, quando fu operato una prima volta e trasferito, da impiegato civile, al ministero della Difesa. Ora che non è più un militare, può parlare liberamente, e non ha dubbi: «L’uranio degli americani ha fatto ammalare di tumore me e quattro dei miei compagni di squadra, in Kosovo, dove sono stato quattro volte dal 1999 al 2001. Senza che nessuno ci dicesse del pericolo, che gli americani invece conoscevano».

Salvo ci incontra nella palestra di un amico: ha difficoltà a muoversi, e cammina su una sedia a rotelle ma «vengo qui per svagarmi, dentro questa palestra sono cresciuto. Ho ancora il record di 128 kili di panca». Sorride e, prima di iniziare a parlare, mi invita a toccargli la testa. «Purché non ti impressioni, senti? Non ho la calotta cranica, devo subire un intervento per mettere una protesi in titanio». Operato ad aprile di quest’anno, Salvo ha re-iniziato a poter parlare solo dopo due mesi di logopedia, e ha ancora difficoltà di lettura che, dice «dipendono dalla parte sinistra del cervello, quella che mi hanno in parte asportato». Viene da Borgo Librino, dal 2008 al 2010 è stato consigliere di quartiere nella nona municipalità a Catania e, prima di diventare un marò, ovvero un soldato sceltissimo specializzato, era un ragazzo come tanti. «A diciotto anni, finita la scuola, ho iniziato a lavorare come restauratore. Cinquantamila lire a settimana. Ho resistito un anno e poi sono partito volontario nell’esercito».

Inizia così, nel 1995, la vita militare di Salvo Cannizzo. Diplomatosi al Cannizzaro, non riusciva a guadagnare abbastanza per rendersi indipendente. «La mia scelta è stata motivata solo da motivi economici ed è una cosa che non ho mai nascosto, nemmeno nei colloqui nell’esercito. Ma la mia sincerità, in qualche modo, è stata premiata: ho sempre avuto valutazioni eccellenti o sopra la media e, quando sono entrato nel battaglione San Marco, le cose sono cambiate. Basco, divisa militare e un rapporto strettissimo con i miei compagni, che ho sempre chiamato fratelli. Amavo il mio lavoro, sentivo lo spirito di corpo». Così Salvo inizia a guadagnare «già un milione e quattrocentomila lire nel 1997, quando ho deciso di sposarmi». Due figlie dal primo matrimonio, finito nel 2006 «quando è iniziata la mia malattia». S’è risposato in chiesa e considera la figlia della sua seconda moglie «come se fosse mia». Ma, in caso di morte, «la reversibilità della pensione andrebbe alla mia prima moglie», perché la lunga pratica del divorzio non è ancora conclusa. Una pensione che, al momento, è esattamente di «800 euro e 17 centesimi, una cifra che per uno abituato a guadagnarne 2800 al mese circa, più le missioni, è una cifra bassissima. Anche perché devo gli alimenti alla mia ex e ho un affitto da pagare», ci spiega. Quello economico è un problema di estrema urgenza per Salvo, che ha denunciato la sua situazione pubblicamente, ricevendo incoraggiamenti per sottoporsi comunque alla chemio e alle altre terapie dai suoi ex compagni. «Uno di loro è già morto, per un cancro al pancreas. Non so quale sia la casistica, magari un malato di tumore ogni mille abitanti, ma al ministero della Difesa, per riconoscerci la causa di servizio, hanno bisogno che cinque malati di tumore in una squadra di appena nove persone dimostrino il rapporto causa effetto con almeno dieci anni di letteratura scientifica». Salvo, al momento, ha ricevuto anche «promesse di aiuto da parte di alcuni politici», anche se preferisce non fare nomi.

«Potrei vivere ancora tre anni se decidessi di sottopormi alla chemio. Ma, dall’ultima operazione che ho fatto ad aprile, quest’anno non sono più andato ad eseguire i controlli, non posso permettermi un viaggio a Milano dove sono in cura, ho finito i risparmi». E pensare che quando Salvo era un marò, un soldato scelto spesso mandato in missione «anche dai servizi segreti, per scortare ambasciatori e ministri anche se queste missioni non risultano nel mio stato di servizio», guadagnava molti soldi. «Non ho mai capito l’ammontare della paga per le missioni non ufficiali: arrivava un assegno, con su scritto “affari speciali” e la cifra. A volte duemila, altre volte ottomila euro». Per le missioni in Kosovo, invece, Salvo ha ricevuto «72 dollari al giorno. E ho ricevuto una medaglia, una croce di guerra, perché nel 2000 ho fatto un record, con tre missioni consecutive. Ma non me ne pento: dovevo comprarmi la casa».

«Purtroppo, un militare in carriera come ero io non poteva rifiutarsi di andare nelle missioni, anche se di cose ingiuste ne ho viste molte». Per Salvo l’esperienza del Kosovo è stata quella più traumatica. Racconta di «una guerra ingiusta, perché cacciavamo i legittimi abitanti per far spazio agli ultimi arrivati». Gli americani, spiega Salvo, pur di consumarle e rinnovare l’armamentario «buttavano centinaia di bombe, spesso senza inneschi per non fare vittime. Per loro è un business e i nuovi armamenti in quel caso li pagava la Nato». E gli italiani? «Non siamo al loro livello, ma siamo i primi produttori di mine antiuomo. E ancora oggi non siamo a conoscenza di quanti militari italiani siano impiegati in giro per il mondo. Sapevi che al momento c’è un gruppo di sommozzatori in Somalia?». Adesso aspetta qualcosa, un segnale di attenzione. «Ci sono decine di class action contro l’uranio impoverito, ma sappiamo già che non ci pagheranno mai: aspettano che moriamo per non doverci riconoscere due milioni di euro di indennizzo». E, se non dovesse farcela, almeno avrà scelto «quando morire, visto che non posso più scegliere quando vivere».


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