Federico Caliri, 31enne catanese, in un anno nel sud-est asiatico è diventato «responsabile di un intero ramo d'azienda». Ma gli mancano la cucina, i paesaggi, il clima e il Calcio Catania. «Ho lasciato un Paese che viveva per lavorare e ne ho trovato uno che lavora per vivere». Guarda le foto
Un 31enne da Catania al Vietnam per fare carriera «Manca la granita, ma qui hanno investito su di me»
«In mezzo a tutta quella gente internazionale, ricordati sempre che sei nato ad Acireale». È la frase con cui termina la lettera di una nonna, indirizzata al nipote che il giorno dopo partirà per il Vietnam. Federico Caliri, 31enne catanese, laureato in economia aziendale a Roma, ha deciso di rivoluzionare la sua vita circa un anno fa: «Lavoravo alla Vodafone di Milano. Mi occupavo della strategia di vendita dei prodotti, ma fare vita d’azienda mi aveva logorato». L’economia italiana attraversava uno dei periodi peggiori della sua crisi, «in ufficio c’erano poche idee, scarse motivazioni, tanta paura e incertezza per il futuro». In poche parole: «Ero infelice». Da qui la scelta di cambiare non solo lavoro, «ma di fare una nuova esperienza in un paese che fosse molto diverso dall’Italia, per cultura e modo di vivere».
Da Catania a Saigon, facendo scalo a Malpensa e poi a Doha. Venti ore di volo, circa. Sei ore di fuso orario da aggiungere all’ora locale. L’idea del Vietnam «nasce durante le vacanze che avevo trascorso lì la stessa estate». Qualche settimana in giro per il sud-est asiatico è bastata a convincerlo: «Ho scoperto un Paese in forte sviluppo, dove il tenore di vita è più basso rispetto all’Europa ma la gente è piena di voglia di riscatto, motivazioni e fiducia nel futuro». Rientrato in Italia la scelta è fatta, passano quattro mesi, lascia il lavoro e riparte per il Vietnam con biglietto di sola andata. «Ho approfittato del Têt, quando tutto il paese si ferma a festeggiare il capodanno vietnamita, per trovare casa, ambientarmi, stringere amicizie e programmare i primi colloqui di lavoro».
Nonostante provenga dall’altra parte del mondo, non abbia gli occhi a mandorla e non parli vietnamita ma inglese, dopo due mesi arriva subito una proposta: «Mi hanno offerto il posto di consulente finanziario in una società assicurativa». Stipendio alto e buone possibilità di carriera, «ma ho rifiutato perché non lo ritenevo un lavoro adatto alla mia etica». L’occasione giusta si presenta poco più tardi: «Firmo con un’azienda che importa macchine industriali, sono l’unico dipendente non vietnamita e mi viene affidata la gestione delle relazioni con l’estero». Le idee che porta in azienda funzionano, riconosciute le sue capacità i dirigenti decidono di investire su di lui: «Hanno trasformato l’ufficio in un ramo d’azienda di cui ora sono direttore responsabile. Sotto di me lavorano cinque persone».
Nei dieci anni di lavoro in Italia, iniziati da consulente, «un simile scatto di carriera non mi era mai stato offerto». In Vietnam è bastato meno di un anno. «Sento il peso della responsabilità ma non ne soffro», perché andando via dall’Italia «ho lasciato un Paese che viveva per lavorare e ne ho trovato uno che lavora per vivere». I ritmi di lavoro, a Saigon, salvo alcune eccezioni «non stressano e rendono più facile trovare un equilibrio tra vita professionale e privata». Massimo otto ore al giorno, fino alle 17, per cinque giorni, «la sera capita di uscire con gli amici tra locali e discoteche, dove si balla la stessa musica che passa in Europa. Il fine settimana, invece, lo dedico spesso ai viaggi. Ho visitato molti bei posti qui attorno, ma l’Italia resta unica per varietà di climi e paesaggi».
La Sicilia è distante migliaia di chilometri, «mi mancano gli affetti e le abitudini ma non sento una nostalgia forte». Almeno finché non si siede a tavola. «Mi sono abituato ai sapori locali ma non a tutti». Tra i piatti tipici che ha provato in Vietnam, i più estremi sono stati «l’uovo cotto col pulcino dentro e la zuppa di serpente servita insieme alla pelle del rettile fritta». Non ha invece ancora avuto il coraggio di mangiare il durian, «un frutto dall’aspetto orribile e dall’odore pure peggiore. Una bontà, almeno per i vietnamiti». La specialità siciliana che più desidera, e che non può trovare se non tornando in patria «è la colazione con la granita alla mandorla e cioccolato, accompagnata dall’immancabile brioche».
Oltre alla cucina, nel suo racconto del Vietnam ci sono lati ben più negativi. «Mancano le leggi e il compromesso è la regola. Mercato nero e corruzione sono ovunque». Gli effetti li subisce anche il traffico, «guidare a Saigon è come un videogioco, pochissime macchine, motorini dappertutto e nessuno rispetta il codice stradale». I poliziotti ci sono «ma badano al proprio portafoglio, fermano i conducenti dei veicoli e senza spiegare l’infrazione commessa chiedono il pagamento della multa». Un’esperienza vissuta in prima persona, «ho finto di non capire cosa dicessero gli agenti, ho parlato siciliano, dopo circa dieci minuti si sono spazientiti, hanno fermato un vietnamita e mi hanno lasciato andare».
Tifoso del Calcio Catania sin da bambino, «sono stato abbonato allo stadio anche quando lavoravo a Milano». A causa della bassa velocità del servizio internet vietnamita, «la scorsa stagione non ho potuto seguire la squadra nemmeno su computer». Eppure, nei sei giorni in cui è tornato a Catania non s’è fato sfuggire l’occasione, «ho programmato il viaggio per potere vedere Catania-Crotone al Massimino». Una delle gare che i giornali definirono in odore di combine: «Già allo stadio ebbi dei dubbi sul pareggio». Ma alla fine, anche dall’altra parte del mondo, «resto un tifoso, schifato ma sempre rossazzurro».
Sul suo futuro Federico Caliri conclude: «Quando sono arrivato in Vietnam non sapevo quanto a lungo sarei rimasto». A circa un anno da allora «non faccio progetti a lunga scadenza ma ho intenzione di restare qui, almeno per ora».