Un anglicismo come tanti altri: worst case scenario. L’ipotesi peggiore possibile. Se si fa riferimento a uno spauracchio di attualità come il terremoto – specie dopo i tremori sismici che hanno investito il territorio di Santa Maria di Licodia, Biancavilla e Paternò – allora possiamo dire che il Comune di Catania ha messo tutto nero su bianco. Nel 2012, anno in cui viene firmato il piano di emergenza di Protezione civile che porta la sigla dell’attuale dirigente Maria Luisa Areddia, approvato 12 mesi dopo dal Consiglio comunale. Uno scenario che non si tratteggia per portare sfiga, più che altro per avere una base di partenza quando si deve reagire concretamente a una catastrofe di proporzioni devastanti. Secondo il Piano di emergenza vergato dagli uffici di via Felice Fontana, il cosiddetto Big one – in altre parole il terremoto grosso, il terremoto «serio» – assomiglia al disastro del 1693: un sisma di magnitudo 6.8 Richter – inferiore al caso di scuola – con epicentro Sortino. Cosa accadrebbe, se la terra tremasse a tal punto?
In una scala crescente da uno a cinque, sarebbero 972 gli edifici che andrebbero incontro al grado di danno più alto, ovvero il collasso, il completo sgretolamento. Non sono pochi, ma c’è di peggio. Scendendo di un solo gradino nelle categorie del rischio sismico, passando dunque al livello quattro, le abitazioni che andrebbero incontro al crollo parziale sarebbero oltre 10mila, per l’esattezza 10mila e 380. Quasi 9mila quelle che incasserebbero danni di livello 3, ovvero lesioni gravi.
Quando su questa griglia si inserisce poi l’elemento umano, le previsioni diventano meno fredde ma anche più spaventose. In caso di sisma 6.8 Richter, i morti – ovviamente su un piede statistico – sarebbero 590. I feriti sarebbero, invece, quasi 1800 (1769 per la precisione), e il numero di sfollati e senza tetto sarebbe agghiacciante: 27mila e 16 persone. Catania sarebbe davvero in grado di reagire? Una città in cui Comune, questura, prefettura e addirittura molti uffici di Protezione civile sono collocati all’interno di edifici costruiti molto prima che sorgessero i cosiddetti criteri anti sismici, avrebbe la forza per rialzarsi da un tracollo di simile portata? Questo è impossibile da predire.
Un’altra previsione che fa una certa impressione è l’ipotesi di distribuzione dei danni sul territorio comunale, indicata ancora nel Piano di emergenza comunale. In presenza di un terremoto di forte entità, le zone di Catania più martoriate sarebbero «la parte di centro storico inclusa da via Plebiscito ad ovest, da via Umberto a nord e da via Dusmet a sud» e ancora «un vasta area del quartiere Picanello, le zone di edilizia popolare nel quartiere San Leone e buona parte dell’edificato intorno alle vie Acquicella, Acquicella Porto e Zia Lisa.
L’allegato L al Piano di emergenza sintetizza con dovizia di particolari il rischio sismico della città di Catania. Qui le previsioni diventano quasi per addetti ai lavori, estremamente settoriali. Uno degli specchietti più interessanti riguarda i diversi modi in cui sono stati costruiti gli edifici a Catania a partire dal 1919, associati a varie ipotesi di esposizione al rischio. In generale la fragilità delle case catanesi è «inferiore per gli edifici in muratura, e superiore per quelli in cemento armato», con questi ultimi che rappresentano il 22 per cento del totale e che sono diventati la regola – o quasi – nelle costruzioni a partire dagli anni ’70. In merito agli edifici non a norma anti sismica, è notoria la difficoltà degli enti pubblici per reperire risorse per la riqualificazione, in assenza di un piano organico. «Ma a dispetto degli incentivi – spiegano dall’ufficio Protezione civile – la cosa più difficile è convincere i privati a mettere a norma i propri beni immobili». «Sarebbe di sicuro più semplice – spiega Paolo Maniscalco, assessore alla Protezione civile dal 93′ al ’99 – se i lavori effettuati per la messa in sicurezza dell’immobile ne aumentassero il valore economico, ma oggi non è così»
Di rilievo sono i grafici riguardanti le condizioni strutturali di alcuni tipi di edifici, come per esempio beni monumentali, chiese, ospedali. Quanto ai monumenti, quasi l’80 per cento del totale è composto da palazzi e chiese. Se i palazzi presentano «uno stato di manutenzione medio-buono con stati fessurativi limitati e con una qualità muraria che può considerarsi generalmente accettabile», lo stesso non può dirsi per i luoghi di culto. Che presentano «una percentuale, seppur limitata, di danno grave e di stato di manutenzione pessimo». Si tratta in genere di «chiese di piccole dimensioni, nella zona periferica della città», la cui tipologia più ricorrente è quella «a navata unica». Addirittura, rimanendo ancora alle chiese, in caso di scenario 1693 «per il 95 per cento il danneggiamento previsto è valutabile come il collasso strutturale dell’edificio (ovvero livelli 4 e 5 di rischio, ndr)».
Un ultimo dato riguarda gli ospedali del territorio catanese. Sebbene la situazione generale sia definita come «non particolarmente confortante», soltanto il Vittorio Emanuele viene catalogato tra gli edifici «potenzialmente pericolosi», con una stima da 1,4. Qui però i plessi vengono inseriti in una scala da 0 a 7, dove al numero maggiore corrisponde una migliore performance anti sismica. Tutti gli altri nosocomi etnei, come si evince dal grafico, non superano il livello 3.
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