Teatro Mobile, il nuovo progetto di Francesca Ferro «Lo Stabile è in agonia, adesso lavoriamo sui talenti»

«Non mi piace il mondo degli attori», confessa Francesca Ferro, ravviandosi una ciocca di ricci rossi. È la direttrice artistica del neonato Teatro Mobile di mestiere fa l’attrice. Ma è, soprattutto, una donna di teatro, con un cognome importante: è figlia di Turi Ferro, probabilmente uno dei più noti tra gli artisti di Catania; ed è anche sorella di Guglielmo, regista, che ormai anni fa ha fatto i bagagli per andare lontano dal capoluogo etneo. «Del mio lavoro amo solo, appunto, il lavoro – dice – Tutto il resto, le pubbliche relazioni, i contatti, mi mette a disagio. Vedo i miei colleghi molto costruiti in ogni cosa che fanno, mentre io anche quando cammino, mi sento goffa, mi sento una…». 

Il Teatro Mobile è spuntato come un fungo dopo una lunga pioggia. E per mesi qui a Catania ha piovuto sullo Stabile. Non può essere un caso.
«No, infatti. L’idea del Teatro Mobile è nata anni fa in aperta sfida a tutto ciò che nel teatro è stabile, fisso, perciò morto. Solo un caso è invece che l’avvio della nostra stagione sia coinciso con il commissariamento dello Stabile. Naturalmente vedevamo l’agonia del Teatro, e profetizzavamo questa fine, che non è certo venuta dal nulla. A un certo punto ci siamo detti che bisognava darsi da fare per mettere a frutto i talenti che sforna la nostra città. Certo, al momento è tutto da fare. Nascere è facile: la vera sfida è durare».

E qual è il vostro progetto per durare?
«Il motto del Teatro Mobile è Crisi, nella sua accezione originaria di momento di passaggio. Ma non per questo vogliamo proporre per forza una novità assoluta, un teatro sperimentale che si rivolgerebbe inevitabilmente a quei pochi che già vanno a teatro. La nostra sfida sta tutta nel coinvolgimento del pubblico, che vogliamo rendere partecipe di una scelta. La vera novità sta nel luogo dove la scelta deve avvenire: fuori dagli ingranaggi farraginosi del Teatro Stabile».

Quali sono per voi le colpe dello Stabile?
«
Sicuramente la gestione amministrativa è stata a dir poco vergognosa. Ormai si tratta di una macchina eccessivamente strutturata, e là dove c’è struttura c’è corruzione. Allo Stabile è mancata negli ultimi anni una figura totalmente integra, priva di interessi o legami. Ma al di là del nepotismo, il vero problema sta nella validità degli artisti coinvolti, e nell’incapacità dell’istituzione di reinventarsi con buon senso. Il teatro deve essere sempre contemporaneo, in dialogo con un pubblico che deve potersi rispecchiare. E oggi il pubblico non si riconosce più in quello che accade sulla scena, ne è un sintomo l’assenza dei giovani».

È particolarmente dura quest’accusa, se viene dalla bocca della figlia di chi ha praticamente fondato lo Stabile, Turi Ferro.
«
Ma la durezza viene proprio dal ricordo che ho dello Stabile di mio padre! Lì si pensava solo a un ideale, a una passione. Non c’erano gli arrivismi, i guadagni, lo status quo, le forze politiche che si sono insinuate in seguito. Ed è per questo che non si vedono più i grandi come mio padre, come Ileana Riga, come mia madre Ida Carrara, checché ne dicano tutti i loro sedicenti eredi. Turi Ferro non lascia eredi, Turi Ferro lascia solo orfani».

Eredi? Orfani?
«Mi dà molto fastidio questa idea per cui tanti attori catanesi si sentono chiamati a un confronto con mio padre, a prendere il suo posto. Ma nessuno potrà prendere il suo posto, semplicemente perché non ce n’è bisogno. Chi vuol essere grande deve essere unico, deve essere in competizione solo con se stesso, altrimenti non è autentico».

Tuo fratello Guglielmo ha detto in un’intervista che bisognerebbe uccidere il padre, santificarlo, e andare avanti.
«Ed è giusto. Catania ha una grande tradizione, e proprio per questo deve fare come hanno fatto i suoi padri, e non quello che hanno fatto. Altrimenti rimaniamo fissi, stabili».

Il che ci riporta al progetto del Teatro Mobile. Della crisi abbiamo ampiamente analizzato il momento negativo. Passando al positivo: quali sono i vostri obiettivi?
«Innanzitutto creare un nuovo pubblico. Per questo il nostro cartellone è così variegato: dobbiamo abituare gli spettatori poco per volta, e senza sconvolgerli saggiare i loro gusti, toccare più corde. Così ci muoviamo tra vecchio e nuovo, tra nuovi attori e grandi nomi. Abbiamo iniziato con Lo Sterminio, ma abbiamo portato in scena anche Liolà di Pirandello; abbiamo lo spettacolo su Modigliani con Marco Bocci, ma poi chiuderemo con Operazione Rimpatrio, un testo completamente nuovo e d’avanguardia.

Insomma, nuovi ma non troppo.
«Vorrei tanto un giorno poter attirare i giovani senza dover ricorrere a nomi televisivi. Ma se non si crea un pubblico come si fa? Ci si rivolge a una ristretta élite, e allora anche la più ardita sperimentazione resta lettera morta. Non saranno tutti d’accordo, ma io credo che il grande teatro sia sempre stato per il grande pubblico. Shakespeare era visto dal popolo, non dalle solite signore impellicciate. I suoi spettacoli duravano cinque ore, e in quelle cinque ore succedeva di tutto. Ma ti immagini cinque ore al teatro, oggi? Sai che noia! È triste, ma è la verità. Non c’è nulla di più triste di quando il pubblico è distante dagli attori. Perché quando invece c’è empatia si crea una magia che solo il teatro può dare. Il teatro deve essere vita vissuta, quotidianità, come una liturgia, in cui la dimensione collettiva è importante. Deve permettere di riscoprirci».

E perché a teatro non c’è più questa magia?
«Oggi l’attore è più un pr che un artista, ed è una cosa che odio. È anche colpa dell’egoismo dei singoli, perché oggi c’è tanto sgomitare… Ma questa non è più l’epoca dei mattatori. Il teatro per andare avanti ha bisogno di più sinergia e meno protagonismo, e in Europa l’hanno capito. È un concetto che mio padre ha voluto esprimere in un suo spettacolo. Sì, ecco, nulla mi emoziona come la collaborazione per una causa comune. Credo sia un po’ il senso della vita: se siamo parte di un unico sistema possiamo essere molto più felici, fare qualcosa di grande. Sono sempre più convinta che l’infelicità nasce dal sentirci al centro dell’universo».

Quindi il Teatro Mobile è concepito come una comunità?
«Certamente! Non siamo un gruppo stabile, e soprattutto non c’è una struttura. Facciamo tutto da noi: scene, costumi, trucco. E non abbiamo alcun finanziamento pubblico».

E il botteghino?
«È andato anche meglio del previsto, visto che per la prima dello Sterminio abbiamo dovuto adattarci alla data dell’8 dicembre. Pensavamo che per l’Immacolata ci sarebbe stato un pubblico modesto, e invece no, pienone. Nella platea c’erano anche dei produttori a cui lo spettacolo è molto piaciuto, e presto saremo in tournée. Per adesso solo al di qua dello Stretto, ma poi chissà… Io credo che un siciliano non possa prescindere dalla sua sicilianità, ma è indispensabile acquisire anche un respiro più ampio. Per questo ammiro tanto la palermitana Emma Dante. Ed è per questo, oltre che per sfuggire all’ombra di mio padre e del suo nome che mi sono formata fuori, e sono tornata a Catania solo dopo dieci anni. Il mio sogno è ripartire da qui per uscire».

Non è più il tempo dei grandi nomi. Per quanto riguarda invece il grande nome di tuo padre: te ne senti più erede o, come dicevi, orfana?
«Intanto bisogna separare l’affetto dalla stima artistica. Ovviamente nutro un grande rispetto per la memoria di mio padre, mi sento fortunata a essere stata cresciuta da un uomo così, ed è per questo rispetto che non mi piace sfruttare il suo nome. Fu lui stesso, quando mi diplomai, a spingermi via da Catania, per cercare una strada che fosse solo mia. All’inizio era difficile, quasi mi vergognavo di far sapere che ero sua figlia. Non che ci fosse nulla di cui vergognarsi, è solo che certe volte portare il suo nome è stato un tale peso… E pensare che da piccola non sognavo nemmeno di fare l’attrice. Per me è stato un po’ come percorrere un sentiero già tracciato. Ma in fin dei conti no, non penso che sarei mai stata capace di fare altro. Quindi eccomi qui».


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