Scicli-Dessau, intervista a mio nonno

«Chi dimentica il passato è destinato a riviverlo». La prima volta che ascoltai questa frase frequentavo la scuola media, la professoressa di religione portò in classe un libro fotografico sul campo di concentramento di Dachau. Le immagini erano molto forti, crude, come il massacro che lì dentro si era perpetrato. Non so come i miei coetanei “vedevano” i massacri del secondo conflitto mondiale,  la mia immagine è stata costruita attraverso i racconti di mio nonno che in quegli anni fu fatto prigioniero dell’esercito tedesco. Conservo ancora a casa alcune lettere, tanti documenti e la targhetta che portava al collo in cui è inciso il suo nome, Sammito Giuseppe.

Quest’anno mio nonno riceverà una medaglia d’onore che viene consegnata ai cittadini italiani, militari e civili, deportati ed internati nei lager nazisti. Sono stato io a compilare la domanda per lui anni fa. Non fu difficile, mi bastò riprendere i dati dalle vecchie richieste di indennizzo per riduzione in schiavitù e lavoro forzato che negli anni mio nonno aveva fatto, tutte senza successo. Una di queste è stata redatta su un modulo inviatogli dall’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni).

Qualche mese fa attraverso una lettera ci viene comunicato che mio nonno è stato invitato alla cerimonia di consegna delle medaglie e che se non può recarsi a Roma la medaglia gli verrà inviata a casa. Leggendo la lettera mi immaginavo con mio nonno, e la mia famiglia accanto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al Sottosegretario Gianni Letta che consegna la medaglia nelle mani di mio nonno. Ma non possiamo andare, la riceveremo a casa.

Se è vero che chi dimentica il passato è destinato a riviverlo, io non voglio dimenticare. Per questo qualche settimana fa, armato di registratore, ho intervistato mio nonno.

«Sono partito per la guerra a vent’anni. Fino ai 16  sono andato a scuola, poi morì mio padre e per questo anche io andai a lavorare insieme ai miei fratelli. Avrò avuto poco più di 18 anni quando mi chiamarono per il periodo premilitare che ci addestrava alla guerra, racconta mio nonno. Sarei dovuto partire con la classe del ’21, ma la nostra partenza fu ritardata di un anno. Si sentiva dire che l’aviazione al momento non sarebbe partita. Ci hanno dato una divisa, un’arma e partimmo con la classe del ’22».

Era il 1941, una lettera gli annunciò la partenza, era febbraio lo ricorda molto bene. Per la prima volta avrebbe lasciato la Sicilia, probabilmente per la prima volta avrebbe superato il confine della provincia di Ragusa. «Tutti quelli che eravamo in età siamo partiti, partì anche gente di 40 anni, tutti partiemmu! Anche due miei fratelli fecero la guerra, ma non partimmo insieme e quindi eravamo in posti diversi. Uno dei due fu spedito in Russia, da lì non fece mai più ritorno. Solo mio fratello minore non partì, lui era troppo giovane, è del ’39».

Mio nonno è nato e cresciuto a Scicli, immaginate quanto sarà stato strano per lui attraversare tutta l’Italia in treno per arrivare a Conegliano Veneto, dove aveva sede la base in cui fu inviato. «Ero un artigliere, ma nella base di Conegliano, la vita militare si riduceva a badare ai cavalli e fare le guardie durante la notte. Io ero abituato ai muli, prendermi cura dei cavalli non fu difficile», mi dice sorridendo. «In Veneto rimasi fino a giugno quando insieme agli altri mi inviarono in Albania. Non ci furono grossi conflitti nelle zone in cui ero impegnato, eravamo solo un presidio militare. In Africa ci fu battaglia, e anche in Russia, dove molti morirono per il freddo. Il fronte Russo fu terribile, sparavano anche sulla ritirata. Mentre i militari cercavano di scappare venivano uccisi, gli tagliavano le mani per non farli salire sui camion e scappare. Poveri, quelli in Russia furono i più sfortunati, lì non ci furono regole», sospira e ricorda amaramente. «Cu putia campari campava, macari a spisi i l’autri!».

In Albania rimase poco più di 14 mesi. L’8 settembre del ’43 ci fu l’armistizio, furono giorni di grande confusione. «Io mi trovavo a Pristina, lì fui fatto prigioniero dai tedeschi e trasferito in Germania. Lo ricordo ancora, era il 12 settembre. Viaggiammo a lungo ammassati in treno, e poi mi ritrovai, insieme agli altri militari, in Germania in un campo di concentramento. Solo dopo qualche giorno capimmo di essere a Dessau, ovviamente nessuno di noi aveva mai sentito il nome di quella città, non sapevamo dove fossimo. Il nostro campo si chiamava “M.Stammlager XI A».

Dessau è nota per la scuola di architettura e design del “Bauhaus”, ma mio nonno questo non lo sa.  A Dessau aveva sede la “Junker” che progettava aeri per la “Luftwaffe” e nemmeno questo mio nonno sapeva, ma forse ha lavorato per loro. «Eravamo in una desolata zona di campagna, ma c’erano molte fabbriche tutt’intorno. Nel nostro campo tanti camion scaricavano materiale per la fabbrica, non ricordo bene cosa fosse, o forse semplicemente non l’ho mai saputo. Ricordo che questi camion scaricavano materiale in fiamme e a noi toccava coprirlo con dei pezzi di lamiera. Lavoravamo tanto e mangiavamo poco. Un pezzo di pane lo dividevamo in sei o sette persone, ci toccava solo una fetta molto sottile. Di solito ci davano il pane alla mattina, per la fame lo mangiavamo subito e per tutto il giorno non avevamo nulla».

Ricordo che da piccolo quando facevo i capricci e non volevo mangiare qualcosa mio nonno mi diceva che lui nella sua  vita aveva mangiato anche le bucce delle patate. «Cercavamo cibo tra la spazzatura, per questo spesso i soldati ci prendevano in giro e non solo, anche a calci in culo. La situazione peggiorò negli ultimi giorni prima della liberazione. Tutto si era sfasciato, non arrivò niente, nulla da mangiare. Tutto quello che trovavamo mangiavamo. Cu si putia arrangiari s’arrangiava!».

Il lavoro nel campo di concentramento durò pochi mesi, poi lo mandarono a lavorare in altri posti. Il governo tedesco non gli riconobbe ai nostri militari lo status di Prigionieri di guerra e li considerò Internati militari (IMI) categoria non riconosciuta dalla Convezione di Ginevra sui Prigionieri. Privi di qualsiasi  tutela internazionale gli internati furono obbligati ai lavori forzati. Mio nonno chiama gli Imi prigionieri civili e ironizza sullo status: «ci hanno considerato prigionieri civili ed eravamo “liberi” di alzarci al mattino e andare a lavorare. La sera dovevamo tornare sempre al campo, dormivamo lì. Ci fecero civili per darci meno diritti, a paja pi tuttu u travagghiu fattu n’avissina dari», mi dice sbuffando.

Ascoltandolo si capisce che un risarcimento i militari italiani lo avrebbero voluto, e di sicuro meritato. La prigionia è stata lunga è molto dura. «Sono stato via quasi 4 anni, sono stato un soldato e un prigioniero. Solo quando arrivarono gli americani mi hanno rispedito a casa. Chi incontrava i surdati amiricani o ‘nglisi manciava. Io non ne incontrai nemmeno uno. Insieme agli altri prigionieri» continua a raccontare «arrivammo in Italia, a Piombino. Lì ci hanno spogliati e disinfettati, hanno regolarizzato la nostra posizione e ci hanno lasciato andare a casa. A Piombino, incontrai un medico che conoscevo, era di Scicli ma non ricordo il suo nome, adesso è morto».

Dopo le visite mediche in Toscana, in treno, tornò a casa. Lì ritrovò i tanti che come lui ce l’avevano fatta, uno dei suoi due fratelli, i vicini e gli amici. «Gli amici partiti da Scicli per Conegliano eravamo in sei o sette, tornammo quasi tutti. Sono passati 70 anni. Io sono tra i più giovani partiti e ho 88 anni, 88 e sei mesi. Ciarma, alla mia età si contano anche i mesi».


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