Non sono poche le zone d'ombra nella storia di Boi Illah Dansoko, deceduto lunedì sera in via Di Prima. Il giorno prima un'ambulanza lo aveva soccorso per poi riportarlo a casa. Ieri un gruppo di connazionali ha protestato. Guarda le foto
San Berillo, migrante muore a casa dopo chiamata 118 Gli amici: «Perché non lo hanno tenuto in ospedale?»
Ella Danso. Era conosciuto così all’interno della comunità gambiana che ieri ne ha pianto la morte. Sul permesso di soggiorno, invece, compare il nome Boi Illah Dansoko. Aveva 32 anni. L’uomo è deceduto lunedì sera in una casa di via Giovanni Di Prima, nel cuore del quartiere San Berillo. «Aveva male al petto, forse al cuore», ci racconta un ragazzo che lo conosceva. Ieri mattina, davanti alla sua abitazione sono state decine le persone che si sono radunate. Con indosso la mascherina hanno inscenato una protesta, bloccando la strada con un materasso fino a quando sul posto non sono arrivate quattro gazzelle dei carabinieri. «Vogliamo sapere cosa è successo, perché è morto», dice un connazionale, quando la tensione è rientrata. Il sospetto infatti è che dietro al decesso possa esserci stato una sottovalutazione dei sintomi, che tutto ciò che era possibile fare non sia stato fatto.
Quando qualcuno muore, la tentazione di prendersela con i medici è forte. Naturale. Ma nella storia del 32enne, nato in Mali da genitori gambiani, le zone d’ombra sono più di una. «Si è sentito male già domenica sera – continua il connazionale -. Hanno chiamato il 118 ed è arrivata un’ambulanza, poi però è tornato a casa». Dove il mezzo di soccorso si sia diretto e quale diagnosi sia stata fatta non è chiaro: stando a quanto risulta a MeridioNews, la centrale del 118 ha ricevuto una richiesta d’intervento intorno alle 21.45. Alla telefonata ha fatto seguito la partenza dell’ambulanza. Il resto non si sa. «Ospedale Garibaldi, lì è andato», afferma un migrante. Dice di averlo saputo da altri. Stando però a quanto verificato da MeridioNews, l’uomo non è mai arrivato al Garibaldi. E nessuno accesso risulta al Pronto soccorso dell’ospedale Cannizzaro.
Ieri mattina, tra le persone che sostavano sul marciapiedi davanti all’ingresso del palazzo in cui Ella Danso da qualche tempo viveva, c’era anche un parente venuto da Palermo. Forse un cugino. A lui i carabinieri hanno chiesto se a occuparsi della sepoltura sarebbe stata la famiglia o se invece bisognava incaricare il Comune. Il giovane, con un italiano stentato e l’aiuto di un altro connazionale, ha optato per la prima possibilità. «Sono stato chiamato poco prima di mezzanotte di lunedì con un messaggio vocale su Whatsapp», racconta a MeridioNews l’imam della moschea di Catania Kheit Abdelhafid. C’era anche lui tra le persone che ieri hanno affollato il tratto di via Di Prima. A poca distanza da lì, la vita del quartiere sembra continuare con i ritmi di tutti i giorni. «La tensione si è creata perché si sono sentiti abbandonati, non solo perché non hanno capito cosa sia accaduto al loro connazionale ma anche perché – continua l’imam – dopo il decesso nessuno ha spiegato loro cosa bisognava fare».
Stamattina è atteso l’arrivo di un medico dell’Asp. «Non aveva un medico di base, quindi bisognerà attendere per il certificato di morte. Dopo ci occuperemo della funzione religiosa – continua Kheit Abdelhafid -. Per la religione islamica, andrebbe svolta lo stesso giorno del decesso ma questa è una situazione particolare». Al momento non è chiaro se la sepoltura avverrà nel cimitero di Catania, dove Ella Danso viveva da anni, o se la salma verrà rimpatriata. «Sarà la famiglia a decidere, sappiamo che ha uno zio a Roma ma la decisione spetta ai familiari più stretti», sottolinea l’imam. Il 32enne, a gennaio dello scorso anno era stato fermato all’aeroporto Fontanarossa poco prima di imbarcarsi su un volo per Instanbul, con un documento ritenuto contraffatto. «Non conosco questa storia – chiosa l’imam -. Sto facendo solo la mia parte in un momento senz’altro difficile».
A interessarsi alla storia di Ella Danso sono anche gli attivisti che operano a San Berillo. «Con tutta probabilità è, contemporaneamente, una storia di ordinaria malasanità e di ordinario razzismo di Stato. L’impegno delle compagne e dei compagni di San Berillo, per il bene di chiunque vive in questo disgraziato paese, è quello di fare emergere la verità su questa vicenda», ha scritto uno di loro su Facebook.