«Sarebbe potuta essere lei stessa, Ludmilla, ma ciò che ne determinava la differenza era la linea dei fianchi: troppo stretta. Non si poteva nemmeno dire con certezza che fosse una donna. Forse era un uomo. O una scimmia». Continua su CTzen il racconto delle vicende della signorina Bengasi e degli abitanti di Serbottana nel romanzo di Sergio Salamone con le illustrazioni di Francesco Guarino - Leggi tutte le puntate
Romanzo a puntate, quinta parte Racconto dell’occhio destro e sinistro
Racconto dell’occhio destro; prima notte.
Nell’occhio destro del volatile si scorgeva una sottile, sottilissima luce. Una zanzara sbatteva ripetutamente contro una luce. Brutta, bruttissima bestiolina: sgraziata, idiota. La lampadina si era spenta, ed ecco che non si vedeva più. Si era volatilizzata. Forse il suo ronzio non era nemmeno esistito. Poi si rivedeva un lampo. Essa tornava. Nella stessa maniera, con la stessa frenesia di arrivare al cuore dell’elettricità. Forse era stata troppo all’oscuro di tutto. Quando decisero le gerarchie della natura, le affidarono un compito ingrato. Nutrirsi del sangue altrui; appostarsi, la notte, sulle pareti di una casa, o tra le assi di una stalla. E poi, quando il respiro di quell’essere caldo che le serviva a sopravvivere, si faceva più regolare e calmo, scendere giù, e attingere a quell’oro rosso. Gonfiarsi fino a scoppiare. Dopo poteva anche accadere che precipitasse qualcosa dall’alto. Un attimo dopo e non era più. Diventava una macchia. Uno sgorbio qualsiasi. Veniva cancellata, o rimaneva lì. Ma intanto c’era quella luce che la rendeva folle. Continuava a battere contro di essa. Forse voleva che le venisse raccontato della sua specie. Probabilmente otteneva risposte.
Ogni volta che rimbalzava via, lo faceva per stupore, e non per incapacità di penetrazione. Si avvicinava a quel bianco accecante, e quel nevischio elettrico le raccontava di lei. Ed era una verità così abbagliante da bruciarla di stupore. Così continuava per tutte le ore che le rimanevano. Il sangue le si seccava a forza di domande, e ne aveva nuovamente bisogno. Quando se ne riforniva, lo faceva avidamente, senza sosta. D’un tratto arrivarono, a mucchi rossastri, altri sgorbi dalle zampe grottesche. Adesso sbattere su quella luce era roba di tanti. Si alternavano nell’angoscia e nel tentativo di raggiungere qualcosa. La lampadina scoppiò. L’occhio del merigno è un tremito che narra una storia vista e rivista. Il rumore di una zanzara non può regalarti il sonno. Solo il tormento del sonno. Un grattarsi ostinato che porta via la pelle.
Racconto dell’occhio sinistro; prima notte.
Sarebbe potuta essere lei stessa, Ludmilla, ma ciò che ne determinava la differenza era la linea dei fianchi: troppo stretta. Non si poteva nemmeno dire con certezza che fosse una donna. Forse era un uomo. O una scimmia. Intanto era lì, immobile, accanto alla lampadina rotta. La cosa che turbava Ludmilla era la sua impassibilità. La finestra, in alto, era così lontana da non permettere di comprendere. Nello stesso tempo era abbastanza vicina da poter consentire il vacuo filo dell’immaginazione. Se era una donna, perché così, a volte, le pareva, era una giovane studentessa, sposata, e infelice; o sola, e malinconica. Ciò che si intuiva era qualcosa di triste: una richiesta di tacito soccorso. Non si sarebbe spiegata, altrimenti, la sua fissità. Nessun essere vivente appagato avrebbe potuto passare tutte le sue ore davanti a un vetro; a osservare ciò che accadeva intorno. Anche se la sensazione netta era che quella fanciulla stesse fissando lei, Ludmilla Bengasi, che ne stesse scoperchiando l’anima, la vita, le giornate. Magari era sgradevole alla vista, colei che guardava la strada e la dirimpettaia. O teneva serrato in petto uno di quei segreti di fuoco, uno di quei misteri lancinanti che fanno la linea della gente. Pareva un foglio pieno di versi.
Dietro alla ragazza si intuiva una luce giallognola. Una di quelle luci che risucchiano infinitamente l’anima, dandole le mille sfumature della mestizia. Era, la ragazza, una statua di solitudine, un faro spento. Le crepitava, però, al fondo, un’emergenza. Una volontà di supplica e lancia. Qualcosa che sfidava. Ludmilla sentiva che quella fanciulla le grattava lo stomaco, le faceva irrazionalmente male alle ossa. Sarebbe potuta sfumare in altre visioni, dato che ancora ella non era certa della sua reale esistenza. Già le pareva di osservarla da molto tempo, e non si era mossa. Probabilmente era un attaccapanni, di quelli che non ricevono cappotti e soprabiti da decenni, e che se ne stanno lì; come idee inutili. L’attaccapanni aveva una strana consistenza, a guardarlo bene, avrebbe potuto muoversi da un attimo all’altro, ma, ovviamente, non lo faceva. Soltanto perché un attaccapanni non può camminare, non può motivare una scelta, non può avere discernimento. Ma, per il resto (il resto è l’illogicità, il sentimento, la fede), si sarebbe potuto mettere a cantare una nenia dolorosa. Non v’era dubbio che avrebbe potuto farlo, se solo gliene fosse stata data l’occasione.
Pure, a guardare bene, a Ludmilla sembrò, infine, di avere di fronte un uomo: uno di quegli individui che lavorano così tanto da abbandonare le braccia lungo i fianchi in un senso di sconfitta. No, non riusciva a intuire alcuna beatitudine, attraverso la finestra di fronte. Quel signore era così stanco, da non avere nemmeno la forza di focalizzare l’attenzione su qualcosa, guardava un piano indistinto di colore. Gli si confondevano le case, i tetti, le presenze. Era come imbottigliato in un momento di assoluta consapevolezza. Conscio forse dell’inutilità di una fatica che lo costringeva, al fondo della sera, a fissare, senza alcuna passione, la vita di fuori. Aveva le mani callose, il viso invecchiato precocemente, le spalle di un toro da monta. Non aveva interesse per la lettura, né per la musica, né, tantomeno, per il cinema. I figli, che gli si facevano intorno, erano degli sconosciuti: mai un gioco, mai un istante della giornata condiviso. Quando rientrava, l’uomo, dava un bacio di sfuggita alla moglie, e approfittava di una sedia qualsiasi per posarvisi come un oggetto inanimato. Poi, indifferente agli strepiti della compagna, si faceva vicino alla finestra, ed iniziava a concentrare il proprio sguardo su quella materia sfumata che era aldilà delle pareti.
Sì, pensò Ludmilla, quell’uomo era certamente un pescatore, e, infatti, adesso la figura di ciò che ormai guardava da tempo s’era ingrossata, era divenuta massiccia. Ma anche liquida; come di mare. Altro che una fanciulla, o un attaccapanni. Perché la osservasse non era dato sapere. Non sapeva molto della vita; per lui l’esistenza era fatica, il tentativo di sbarcare il lunario. Le sue mani erano ormai disabituate alle carezze, a forza di afferrare le reti, s’era dimenticato della loro essenza: quella di essere la propaggine dell’affetto. Si preparava al domani, guardando senza un reale interesse all’oggi, che non fosse un piatto caldo a cena: un letto dove potersi buttare in un sonno senza coscienza. Ma quel giorno era desolato; quel giorno era abbandonato. Oh, abbandonato!
[Illustrazione di Francesco Guarino]