Da «Catartica» a «Uno» i Marlene Kuntz hanno dovuto misurarsi con la propria evoluzione (musicale, testuale, esistenziale) non di pari passo con quella del proprio pubblico. Questo il motivo delle critiche dei fan ancora amareggiati per labbandono, da parte della band di Cuneo, delle sonorità noise degli esordi...- "Uno": la recensione de Il Cibicida
Quel destino del fare i conti col tempo
Quasi un destino, il loro. Quasi una condanna, quella di non essere capiti. Di non essere compresi nella loro voglia di evoluzione. I Marlene Kuntz sono tra quelle che si potrebbe definire band complete, band cioè che hanno fatto un percorso composito, che hanno scalato ad uno a uno i gradini del processo creativo. Una formazione che al rock ha chiesto e dato molto e che allesordio, ben quattordici anni fa, aveva lasciato anche uno come Lindo Ferretti senza parole. Catartica (94) e ancor di più Il Vile (96) erano il noise annaffiato di Barbera; era il modo italiano di rispondere a complessi come Sonic Youth, Swans ed in generale a tutto il movimento della New York del rumore. A metà novanta il rock italiano indipendente trovava nei Marlene un giusto riscatto di chitarre, di testi al vetriolo, di immagine sgrassata di buonismo e di inutili inglesismi. I figli incacchiati del Consorzio Suonatori Indipendenti ci si divertiva a definirli.
Poi però il destino. Quando, cioè, giunge per loro il momento di fare un passo più in là, quando Godano elabora una nuova forma di scrittura meno spigolosa e più lirica, quando i Kuntz invitano la strafamosa Skin (allora ancora Skunk Anansie) a cantare nel singolone La canzone che scrivo per te (contenuta nellalbum Che Cosa Vedi), quando insomma lacerba Marlene comincia il processo fisiologico dellemancipazione nei confronti di mercato, critica, scena – i fan si fanno prendere da quello sconforto che attanaglia chi si vede tradito dagli idoli senza macchia. I Kuntz così si sentono scaricare addosso tutta la frustrazione di una generazione di ventenni irremovibile sui concetti di indipendenza, di furore giovanile, di fedeltà, anzi, radicalismo musicale. E soprattutto si rendono conto che la loro trasformazione verso un rock meno sonico e più sacrale, maggiormente legato allesistenza umana tutta e meno a quella del sudore post-adolescenziale, non seguiva di pari passo l’evoluzione di buona parte del loro seguito di ascoltatori.
E se dischi come Senza Peso e Bianco Sporco incattiviscono ancor più la sfida tra gli ex-ragazzi di Cuneo ed i loro sostenitori, non certo aiuta laddio del bassista Dan Solo e la scelta di andare avanti a tre zampe (Godano, Bergia, Tesio) trasformando in un ricordo ancora più lontano il quartetto infiammato che esplodeva nelle dissonanze distorsive di Festa Mesta o che ruggiva nel frastuono psichedelico di Ape Regina. Ci vuole il faccione barbuto di Gianni Maroccolo a metter pace; è stato suo, infatti, il basso di questi ultimi anni da Bianco Sporco allo S-Low Tour.
Così il destino dei Marlene è quello di essere contestati nelle loro trasformazioni, nella loro marlenizzazione che li ha portati col tempo ad essere tra le migliori rock band europee (anche se in realtà lEuropa – eccolo di nuovo quel malvagio fato senza pietà – ha messo un muro di fronte alla lingua italiana, punto di forza dei Kuntz). Nel frattempo Godano s’è fatto crescere una barba, metafora del tempo che «deve» passare e di una maturazione che «deve» avvenire. Ed ha scritto un disco come Uno che è la migliore espressione delle sue suggestioni poetiche (Nabokov), della sua scrittura ricca di parole (espressasi anche nella sua recente uscita bibliografica I Vivi), del volto un po invecchiato, ma sempre autentico di Marlene. Un disco romantico, passionale, di uomini e di donne, un disco di chitarre addomesticate, melodie da camera, da gustarsi seduti sulle poltroncine di un teatro (a Catania il Metropolitan) in barba alle critiche dei dis-aficionados che con ammirevole regolarità contestano ogni nuovo disco dei Marlene.
Un destino, quello dei Marlene Kuntz. Quello di fare i conti col tempo. Anzi non un destino, un grandissimo merito.