Quanto spendiamo per armi e ‘missioni di pace’?

di C. Alessandro Mauceri

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una crisi economica globale forse senza precedenti che ha coinvolto quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea, Italia in primis.

Da alcuni anni, ormai, non si fa altro che parlare di quali potrebbero essere gli strumenti per reperire fondi per risanare la crisi che il nostro Paese e la nostra Regione attraversano. Da un’analisi sull’operato di chi ha gestito la Cosa comune negli ultimi anni risulta, però, che la situazione, lungi dall’essere migliorata, continua a peggiorare. (a sinistra, foto tratta da pellisintetiche.blog.tiscali.it)

I dati pubblicati da Eurostat indicano un peggioramento del debito pubblico dell’Italia che, nel secondo trimestre 2012, ha raggiunto il 126,1% del Pil: si tratta del dato peggiore tra i Paesi della UE, secondo solo alla Grecia che, però, presenta un trend del rapporto debito/Pil negativo (al contrario dell’Italia che vede crescere tale rapporto del 5% circa).

In periodi di crisi, accanto a interventi infrastrutturali e visioni strategiche di ampio respiro che per dare i loro frutti richiedono tempi lunghi, è necessario riscoprire valori come “moderazione” e “risparmio” e, di conseguenza, qualsiasi tipo di manovra economica dovrebbe partire da una disamina dei bilanci pubblici per valutare se le risorse disponibili sono sufficienti o meno a soddisfare i bisogni del territorio e se le difficoltà in cui versa la pubblica amministrazione a tutti i livelli non siano piuttosto dovute a sprechi e sperperi.

Tra le varie voci di spesa del bilancio statale la prima che ha attirato la nostra attenzione è quella relativa alla “Difesa”. Il settore Armamenti e Difesa (eufemismo per giustificare le ingenti spese: “I sacrifici per certe scelte saranno meno amari se si pensa che siano destinati a garantire la nostra incolumità e la nostra sicurezza”), non ha mai mostrato segni di “cedimento” nel nostro Paese, come del resto in quasi tutto il globo (ivi compresi i Paesi in via di sviluppo).

Per capire la rilevanza di tale voce tra i capitoli di spesa di un Paese basti pensare che, sulla base dei risultati di uno studio condotto dall’Università del Massachusetts, per ogni miliardo di dollari spesi nel settore “difesa” si creano 11.000 nuovi posti di lavoro; se però la stessa somma di denaro venisse spesa nel settore “energie rinnovabili”, oltre ai benefici per l’ambiente, i nuovi posti di lavoro creati sarebbero 17.000. Se, però, si decidesse di investire la stessa somma nel settore”educazione” i nuovi posti di lavoro sarebbero ben 29.000. (a destra, foto tratta da it.paperblog.com)

Appare evidente, quindi, che in un momento di grave crisi, caratterizzato da tassi di disoccupazione ai massimi storici, la scelta dovrebbe essere ovvia. Ciò appare ancora più importante in considerazione del fatto che, se è vero come è vero che l’Unione Europea aspira ad avere, oltre alla già esistente Europol, una forza militare propria (già prevista e per la quale si sono già mossi i primi passi), allora non si capisce cosa debbano farsene gli Stati europei di circa 7.000.000 di soldati (totale delle forze armate dei Paesi dell’Unione Europea) quando la maggiore forza militare del globo, vale a dire gli Stati Uniti, ne ha “solo “ 1 milione e mezzo, e quale sia la necessità di disporre di un parco mezzi militari di oltre 45.000 tra carri armati e mezzi di combattimento (negli Stati Uniti sono circa 34.000) e di circa 3.500 aerei di combattimento (negli Stati Uniti si attestano intorno a 2.000). (a sinistra, foto tratta da it.wikipedia.org)

Come se ciò non bastasse, poi, c’è da tenere presente che, nonostante la crisi finanziaria attuale e la conseguente recessione globale, le spese per il settore militare continuano a crescere: nel 2010 la spesa militare ha raggiunto i 1.630 miliardi di dollari (dati Sipri), con un incremento costante anno dopo anno. Per comprendere l’importanza del fenomeno, basti pensare che a livello mondiale la quota destinata alle spese militari è del 2,6% del Prodotto interno lordo.

In questo settore, l’Italia occupa il decimo posto con 37 miliardi di dollari. Come se non bastasse, va detto che il bilancio della Difesa italiana risulta essere di difficile comprensione e, forse, poco trasparente. Ciò è dovuto al fatto, non si sa se voluto o del tutto involontario, che alcune spese riconducibili a questo settore (ad esempio, i sistemi d’arma o le missioni internazionali) sono riportate in diversi capitoli del bilancio dello Stato, di pertinenza di Ministeri diversi da quello della Difesa.

L’attuale Governo, nato sotto l’egida di termini come “risparmio”, “razionalizzazione delle spese” e simili formule linguistiche, quando nella manovra “Salva Italia” si è trattato di tagliare i costi alla spesa per gli armamenti, non solo non ha adottato i tagli previsti, ma ha deciso di stanziare ulteriori 700 milioni di euro, per missioni militari all’estero fino alla fine del 2012.

Alcuni Paesi europei (Germania e Gran Bretagna in primis) hanno ridotto, in qualche modo, la propria spesa nel settore della Difesa; l’Italia, invece, non ci ha nemmeno pensato. Se è vero, come è vero, che nel mondo si spendono ogni anno più di 1.600 miliardi di dollari per questo settore basterebbe, se non proprio azzerarla (come pure sarebbe giusto fare), ridurre il più possibile questa voce di spesa per risolvere problemi ben maggiori: ad esempio, secondo uno studio recente, basterebbe una riduzione del 10% della spesa militare per risolvere la crisi finanziaria della Grecia, eliminando le conseguenze economiche che il rischio ancora forte di un possibile default finanziario sta creando in Europa. Eppure la strada scelta, da quasi tutti gli Stati (Grecia inclusa) è stata un’altra. (a destra, il logo del Ministero della Difesa, foto tratta da investireoggi.it) 

Anche nel nostro Paese, per risolvere molti dei problemi che affliggono la nostra economia, basterebbe adottare poche semplici misure come, ad esempio, ridurre le risorse destinate alle spese militari.

A conferma di ciò, il ministro della Difesa, Di Paola, aveva evidenziato la necessità di ridurre i costi per la difesa, salvo poi aggiungere che tale riduzione si sarebbe concretizzata nel taglio di 30.000 unità in 10 anni (con conseguente perdita di posti di lavoro e quindi aumento delle spese per il Paese), dicendo però che tali somme sarebbero state sin da subito investite in armamenti che, oltre ad essere eccedenti per i motivi detti prima, non porteranno alcun beneficio economico all’Italia dato che, per la stragrande maggioranza, sono prodotti all’estero (come, ad esempio, i famosi F-35 (foto a desta, tratta da defenseindustrydaily.com) acquistati di recente alla modica cifra di 15,87 miliardi di euro, Segredifesa 2011).

La causa della mancata riduzione delle voci di spesa destinate alla Difesa forse va ricercata nell’intricato dedalo di rapporti tra politici, militari e industria degli armamenti – con scambi di ruolo tra le posizioni di vertice nei tre ambiti – nella possibilità di ricorrere a forme “semplificate” per le forniture e nella possibilità di rilevanti revisioni dei prezzi in itinere che hanno permesso alla pubblica amministrazione di “gestire” in modo più agevole le somme destinate a questa voce di spesa. Ciò ha portato, negli ultimi anni alla riduzione del numero di imprese italiane coinvolte con progressiva concentrazione dell’industria militare nazionale, già caratterizzata dalla presenza di un numero ristretto di grandi gruppi pubblici e privati.

Questo fenomeno ha favorito la concentrazione del controllo delle spese per l’acquisto di armamenti, consentendo a pochissime imprese, prima fra queste Finmeccanica – decimo produttore mondiale di armamenti – di gestirlo quasi per intero. Inoltre, in barba alle dichiarazione di ministri, sottosegretari, capi di Stato maggiore della Difesa e quant’altri che, solo pochi anni orsono, parlavano della creazione di almeno dieci mila posti di lavoro in più in questo settore – anche per giustificare gli oneri di cui l’Italia si stava facendo carico con la partecipazione al programma F-35 – le scelte fatte non hanno prodotto risultati positivi né sotto il profilo occupazionale, né per gli azionisti (e, quindi, per lo Stato italiano che è tra i maggiori azionisti di Finmeccanica – foto a destra, tratta da trend-online.com).

Se è vero, come è vero, che l’approvvigionamento di armi e similari da parte del nostro Stato da numerose imprese si è via via ridotto e ogni giorno che passa si assiste ad una sempre maggiore concentrazione di commissioni ad aziende facenti capo ad un solo gruppo, che fine hanno fatto tutte le imprese produttrici di armamenti che erano il nocciolo duro di intere zone del Nord Italia?

Ebbene, alcune di queste hanno subito gli effetti della crisi, altre invece hanno deciso di cambiare il proprio mercato di riferimento. Da un rapporto del Ministero risulta che il principale acquirente di armamenti prodotti da aziende italiane è l’Arabia Saudita, immediatamente seguita dalla Turchia e che una posizione di rilievo (16°) è occupata niente meno che dalla Libia. In realtà, la relazione ministeriale, circa la vendita di armamenti prodotti nel nostro Paese, mostra come oltre i due terzi delle armi prodotte da aziende italiane e destinate al commercio estero sono andate a Paesi extra UE e a Paesi extra NATO (vale a Paesi potenziali nemici in caso di conflitti) e Paesi come il Pakistan e l’India (ovvero Paesi in guerra tra loro da lungo tempo e che sono entrambi, tanto per non essere da meno, clienti delle imprese produttrici di materiale bellico italiane).

L’Italia resta comunque, nonostante i dati sopra riportati, un Paese “pacifista”… a parte il fatto che, ad oggi, alcune migliaia di uomini e mezzi dell’esercito italiano sono in giro per il mondo dall’Iraq ai Balcani, dall’Afganistan al Corno d’Africa, in “azioni di pace”. Ma allora se di azioni di pace si tratta, perché non mandare semplici funzionari, invece dell’esercito e di navi e mezzi da guerra che hanno costi enormi (al punto che, già nel 2005, 2006 e 2007, in Finanziaria è stata prevista la creazione un fondo di riserva rispettivamente di 1.200, 1.030 e 1.030 milioni di euro per la copertura delle operazioni militari all’estero, pari a circa il 4% in più del totale del bilancio della Difesa)?

 

 


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