Nessun rinvio delle elezioni a Trapani. Così il senatore rischia di diventare sindaco prima che un giudice decida sull'obbligo di soggiorno chiesto dalla Procura di Palermo. Che basa le sue accuse sulla recente sentenza d'Appello a carico di D'Alì, in cui si ripercorrono vent'anni di presunti rapporti tra mafia e politica
Perché per la Dda D’Alì è socialmente pericoloso Elezioni, affari e amicizie. Ma prove solo fino al 94
L’11 giugno a Trapani si voterà regolarmente. Nessuna ipotesi rinvio in campo, ha detto il presidente della Regione Rosario Crocetta. E i due candidati di centrodestra travolti dalle vicende giudiziarie, Antonio D’Alì e Girolamo Fazio, hanno confermato che non si ritireranno. Sul primo pende una richiesta di soggiorno obbligato a Trapani, il secondo è ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sui rapporti con gli armatori Morace. Il procuratore di Palermo, Franco Lo Voi, rimanda al mittente le accuse di giustizia a orologeria. «I tempi delle indagini e della politica sono diversi e a volte possono crearsi sovrapposizioni temporali – ha sottolineato -. Quando questo capita, comunque, in mancanza di una conoscenza precisa dei fatti, nessuno è autorizzato a parlare di giustizia a orologeria».
Se per Fazio le accuse nascono da un’indagine che analizza fatti recentissimi, le contestazioni della Direzione distrettuale antimafia a D’Alì non derivano da nuovi elementi d’indagine, bensì si basano sulla sentenza di secondo grado, emessa il 23 settembre del 2016, con cui il senatore di Forza Italia è stato assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa per i fatti successivi al 1994, e prescritto per quelli precedenti. Periodo in cui, però, scrive il giudice, «è stato provato che D’Alì abbia contribuito, con coscienza e volontà, al rafforzamento di Cosa Nostra». Mentre, successivamente al 1994, si ritiene che il politico «non abbia più operato fattivamente in favore dell’associazione mafiosa».
LA VICENDA DEL TERRENO DI CONTRADA ZANGARA
Nel dicembre del 1992 D’Alì vende per 300 milioni di lire un appezzamento di terreno a Castelvetrano, in contrada Zangara, a Francesco Geraci, ex gioielliere oggi collaboratore di giustizia. Per poi restituire il denaro ricevuto in contanti e in tranche da 20 milioni allo stesso Geraci, dietro cui però agiva Matteo Messina Denaro, su interesse dell’allora latitante Totò Riina. «L’anomalia di queste restituzioni – si legge nella sentenza d’Appello – dimostra che D’Alì agì in maniera cosciente e volontaria, comprendendo che il proprio fatto era volto alla realizzazione dell’operazione architettata dai massimi esponenti di Cosa Nostra e volendovi prestare il proprio contributo». Il tutto per evitare una possibile confisca del terreno. Per quest’operazione D’Alì «ha ricevuto la fiducia dei massimi esponenti di Cosa Nostra», a cominciare da Matteo Messina Denaro, la cui famiglia aveva lavorato come campieri nelle tenute dei D’Alì.
IL SOSTEGNO DI COSA NOSTRA ALLE ELEZIONI DEL 1994
Sono anni in cui il senatore sarebbe stato a disposizione di Cosa Nostra. «Diversi collaboratori di giustizia hanno confermato la piena disponibilità di D’Alì, che gli consentì di ottenere l’appoggio elettorale in occasione delle consultazioni del 1994. Nessun dubbio – scrive il giudice – è stato sollevato sull’attendibilità dei collaboratori dalla difesa dell’imputato». In particolare il pentito Tullio Cannella ha affermato che il boss Vincenzo Virga aveva indicato D’Alì tra le persone da coinvolgere nella nascita di Sicilia Libera, ossia del partito mediante il quale Cosa Nostra avrebbe inteso ottenere diretta rappresentanza politica, senza mediazione con i partiti tradizionali». Progetto poi messo da parte perché Cosa Nostra avrebbe deciso di «convogliare i propri voti su Forza Italia».
La sentenza analizza anche le elezioni del 2001 quando – secondo quanto riferito dal pentito Antonino Birrittella, ritenuto attendibile dal giudice di secondo grado – Cosa Nostra «avrebbe dovuto appoggiare il senatore D’Alì per le politiche, tanto è vero che Francesco Pace (capomafia di Trapani ndr) diede a lui direttive per organizzare iniziative, riunioni elettorali con gli operai delle rispettive imprese, coinvolgendo parenti, amici e conoscenti». Una ricostruzione che il giudice d’Appello definisce realistica. «Può pacificamente sostenersi che le diverse prospettazioni date alle vicende elettorali del 2001 da Birrittella non appaiono il frutto di un’elaborazione artificiosa e non veridica, in mancanza peraltro di un qualsiasi interesse utilitaristico, ma risultano essere la rappresentazione realistica delle competizioni elettorali».
LA VICENDA DELLA CALCESTRUZZI ERICINA
La sentenza di secondo grado ripercorre poi altri episodi, largamente discussi nel corso degli anni, su cui non è dimostrato il ruolo attivo del senatore a favore di Cosa Nostra. Il primo è quello legato all’impresa Calcestruzzi Ericina, confiscata al boss Virga. D’Alì era accusato, nelle vesti di sottosegretario agli Interni, di essere intervenuto su organi istituzionali e uffici pubblici «per inibire e ostacolare le iniziative a sostegno della ditta in amministrazione giudiziaria, contribuendo di contro all’espansione di società direttamente riconducibile all’associazione mafiosa». In particolare la Calcestruzzi nel 2002 aveva concluso un accordo per la fornitura di calcestruzzo con un imprenditore di Partinico, che stava lavorando nell’area industriale di Trapani su incarico della società Bertolino. Un’intesa che riguardava l’intero lavoro ma che invece si interruppe dopo un paio di forniture.
L’allora amministratore giudiziario della Calcestruzzi, Carmelo Castelli, ha riferito ai magistrati che un funzionario dell’Agenzia del Demanio, il geometra Nasca, gli aveva raccontato di aver ricevuto una telefonata dal senatore D’Alì che lo invitava a lasciare spazio ad altri produttori locali di calcestruzzo, per quanto riguardava i lavori della Bertolino, tenuto conto del fatto che la Calcestruzzi Ericina aveva già ricevuto una grossa commessa relativa ai lavori al porto di Trapani, grazie all’appoggio istituzionale del Prefetto, non lasciando spazio agli altri imprenditori del settore. Ma questa ricostruzione non è stata sostenuta da prove. Anzi, i diretti interessati, a cominciare dal direttore dei lavori di quel cantiere, hanno negato qualsiasi pressione di D’Alì finalizzata a cambiare fornitore. Modifica motivata invece semplicemente da ragioni economiche. Ecco perché il giudice di secondo grado scrive che può ritenersi «verosimile» l’intervento di D’Alì su Nasca, ma che non si può sapere se fosse derivato «da pressioni ricevute dall’imputato da parte dell’associazione mafiosa», o se lo stesso politico avesse voluto «tutelare tutte le imprese dedite alla produzione di calcestruzzi, in maniera da non creare situazioni di monopolio».
IL TRASFERIMENTO DEL PREFETTO FULVIO SODANO
Fulvio Sodano, morto nel 2014 e ricordato come «il prefetto coraggio» o «il prefetto del popolo», ha guidato l’ente di Trapani da fine 2000 all’inizio del 2003. In questo periodo i suoi sforzi per aiutare proprio la Calcestruzzi Ericina a risollevarsi dopo la confisca, gli valsero il rancore di Cosa Nostra trapanese. Al punto da spingere l’associazione a cercare sponde istituzionali per mandarlo via. Secondo l’accusa il riferimento nei palazzi del potere era l’allora sottosegretario D’Alì. Il contrasto tra il senatore e il prefetto è dato per certo dal giudice che ricorda come lo stesso Sodano riferì della «vibrata protesta» di D’Alì nei suoi confronti, quando chiese di far rifornire alla Calcestruzzi Ericina le imprese impegnate nei lavori al porto di Trapani. Lamentele che però, secondo il magistrato, non rappresentano una condotta che ha favorito o rafforzato Cosa Nostra. Sodano ha anche dichiarato che, cercando di capire i motivi del suo trasferimento ad Agrigento, seppe da Totò Cuffaro che era stato D’Alì a portare insistenti pressioni sull’allora ministro dell’Interno Beppe Pisanu. Una versione che, però, è stata smentita sia da Cuffaro che da Pisanu. Nessuna prova dunque per riconoscere la colpevolezza di D’Alì.
LA RICHIESTA DI AIUTO DI TOMMASO COPPOLA A D’ALI’
Tommaso Coppola (imprenditore processato e assolto dalle accuse di truffa a intestazione fittizia con l’aggravante mafiosa) fu arrestato nel novembre del 2005. Intercettato in carcere mentre parlava con i famigliari, è emersa la preoccupazione per il futuro delle sue imprese. «Questa faccenda… – dice al nipote – col senatore gli dice: “Un occhio di riguardo lì… che questa deve continuare a lavorare e a portare materiale lì. È chiaro? Il senatore poi con il prefetto… Parla con Camillo… capito?». Il Camillo che avrebbe dovuto fare da mediatore con D’Alì sarebbe Camillo Iovino, in passato candidato sindaco di Forza Italia (lo stesso partito di D’Alì) a Valderice, processato e assolto per favoreggiamento alla mafia. Dalle successive conversazioni intercettate in carcere si evince che Iovino avrebbe incontrato due volte D’Alì per perorare la causa dell’amico Coppola, anche se Iovino ha sempre negato.
Dal tenore di questi dialoghi, il giudice sottolinea che «D’Ali prima aveva assicurato che le imprese del Coppola sarebbero state tenute in considerazione, mentre dopo […] riteneva che fosse meglio attendere che si calmassero le acque». Quindi la Corte d’Appello conclude: «Rimane, dunque, il fatto che Tommaso Coppola abbia dato istruzioni perché venisse contattato l’imputato. Ciò induce a ritenere che tra costoro vi fosse una relazione tale per cui il detenuto non temeva che D’Alì avrebbe denunciato le sue richieste e comunque confidava nel suo intervento e tale affidamento da parte del Coppola ben si sposa con il profilo del D’Alì quale soggetto contiguo a Cosa Nostra. Resta, però, la mancanza di prova in ordine al suo contributo a vantaggio di Coppola, che è dirimente al fine dell’affermazione della sua responsabilità penale».
È questo uno dei passaggi cruciali per cui D’Alì viene assolto dalle accuse per i fatti successivi al 1994, «non essendo sufficiente – scrive il giudice – una prognosi di mera pericolosità ex ante, perché il giudice deve accertare un reale effetto vantaggioso per la struttura organizzativa derivante dalla condotta oggetto di contestazione». E ancora: «È stato più volte ribadito che si trattasse di persona vicina all’associazione mafiosa e disponibile, in caso di bisogno, ma in mancanza di una prova certa, non può certo presumersi che il sodalizio sia risultato rafforzato dal pactum sceleris, in quanto idoneo a garantire, di per sé, la permanenza e la stabilità dell’associazione mafiosa».
Ma è proprio dalle 65 pagine di motivazioni della sentenza d’Appello e dal concetto di pericolosità che adesso la Direzione distrettuale antimafia di Palermo riparte, con la richiesta di obbligo di soggiorno, su cui il giudice si esprimerà solo a luglio. Quando D’Alì potrebbe già essere il nuovo sindaco di Trapani.