Perché le tre Aree metropolitane (Palermo, Catania e Messina) e il taglio dei 200 Comuni rischiano di travolgere la vita civile della nostra Isola

Il giorno di Ferragosto – tre giorni fa – mentre si provava a spacciare per ‘nuova riforma’ la prossima istituzione delle tre Aree metropolitane della Sicilia (notizia già vecchia di qualche anno), questo giornale lanciava la notizia che il Governo regionale vorrebbe far sparire tutti i Comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti: in pratica, a ‘cassare’ 200 Comuni.

Ovviamente, questo dovrebbe avvenire con una legge regionale che, in quanto tale, dovrebbe essere approvata da Sala d’Ercole. Oggi proveremo a capire perché la Regione, in tempi strettissimi, dovrebbe introdurre le tre Aree Metropolitane (Palermo, Catania e Messina), previste, per la cronaca, dalla legge nazionale n. 142 del 1990. Legge, almeno in questa parte, fino ad oggi mai prese in considerazione; e perché, soprattutto, dovrebbe far sparire 200 Comuni accorpandoli ‘selvaggiamente’ l’uno con l’altro.

Cominciamo col dire che quella che il Governo della Regione sta provando a far ‘inghiottire’ a Sala d’Ercole e ai siciliani non è una riforma organica, ma un disegno d legge raffazzonato, stilato in fretta e furia sull’onda di una crisi finanziaria che Regione e Comuni non controllano più.

La cosa che colpisce di questa riforma presentata dal Governo regionale è il richiamo, assolutamente improprio, all’articolo 15 dello Statuto autonomistico siciliano. L’articolo 15, è noto, punta a sostituire le vecchie Province con “liberi consorzi di Comuni”. Mentre il Governo regionale, con l’istituzione delle tre Aree metropolitane e con la riduzione del numero dei Comuni, di fatto, si sta mettendo sotto i piedi l’articolo 15 dello Statuto. Per un motivo semplice: perché ai Comuni non viene data alcuna libertà di scelta, ma solo l’obbligo di entrare a far parte delle tre Aree metropolitane (nel caso dei Comuni vicini a Palermo, Catania e Messina) e nei futuri consorzi di Comuni.

Ora proveremo a illustrare perché anche queste due strampalate iniziative del Governo rischiano di creare molto più ‘bordello’ di quello che, a parole, dicono di voler eliminare.

Cominciamo con le Aree metropolitane introdotte, in Italia, con la legge nazionale 142 del 1990. La previsione di questa legge era giusta; l’articolazione e la realizzazione sbagliata. Tant’è vero che questa legge non è mai stata applicata. Avete mai sentito parlare del “Sindaco metropolitano”?

In Sicilia, poi, l’istituzione delle tre Aree metropolitane cozza con l’articolo 15 dello Statuto e con investimenti da effettuare di notevole entità. Per questi due motivi – soprattutto per il primo – l’Ars, dal 1990 ad oggi, non ha mai preso in considerazione l’ipotesi di introdurre nel’ordinamento regionale questa parte della legge n. 142. Ricordiamo che, negli anni ’90 del secolo passato, in Sicilia, la legge 142 è stata recepita a spizzichi e bocconi dall’Ars, introducendo alcune parti di tale legge ed escludendone altre.

Perché, giusto oggi, la Regione Sicilia dovrebbe istituire le tre Aree metropolitane di Palermo, Catania e Messina? La risposta è semplice: perché con l’applicazione del Fiscal Compact non ci sono più soldi (il Fiscal Compact è un trattato internazionale che costringe il nostro Paese a versare ogni anno, per vent’anni, 50 miliardi di euro all’Unione Europea per dimezzare il deficit pubblico). Basti pensare che quest’anno lo Stato si è preso dal bilancio della Regione 914 milioni di euro: e altrettanti se ne dovrebbe prendere il prossimo anno (anche se non capiamo da dove, visto che la Regione è già in ‘mutande’).

Qui viene fuori la prima contraddizione. Le Aree metropolitane, pensate alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, presupponevano grandi investimenti ed è anche per questo che non sono mai decollate. In Sicilia, come già accennato, tra le altre cose, avrebbero travolto l’articolo 15 dello Statuto: un motivo in più per non introdurle.

Oggi, improvvisamente, si vorrebbero introdurre le Aree metropolitane per ‘risparmiare’. Una follia, perché senza soldi l’applicazione di questa legge smentirà, nei fatti, lo spirito della legge stessa, facendo venire meno uno dei pilastri sui quali si basa la legge 142: il principio di sussidiarietà, peraltro poi – e non prima – voluto dall’Unione Europea come principio cardine della propria politica territoriale.

Come si può notare, la confusione è totale. Siamo davanti a un Governo regionale che, pur di fare ‘cassa’, assembla norme in totale contraddizione tra di loro che, se trasformate in leggi regionali, creerebbero, come già accennato, solo grandi bordelli.

Facciamo un esempio semplice semplice. Già buona parte dei Comuni della ‘cintura’ di Palermo sono, come dicono gli urbanisti, “quartieri dormitorio”. Fino ad oggi Bagheria, con il Comune alle spalle, pur tra mille difficoltà, è riuscita ad assicurare un minimo di servizi ai cittadini.

Con l’istituzione dell’Area metropolitana di Palermo in condizioni di ristrettezze finanziarie, inevitabilmente, le risorse finanziarie dalle periferie confluiranno al centro, cioè a Palermo.

Già a Palermo per pagare gli oltre 10 mila precari, in parte ‘stabilizzati’ e in parte non ‘stabilizzati’, ha tagliato quasi tutti i servizi sociali e, pur avendo a disposizione, tra ex Amia e Gesip, oltre 5 mila e 500 addetti (4 volte in più di quanti ne ha Torino, che si estende in un’area maggiore), non riesce a tenere in ordine la città, se è vero che l’immondizia giace per le strade.

Di fatto, i soldi che, con le tasse locali, verranno rastrellati nei piccoli Comuni dell’Area metropolitana non verranno spesi, come avviene bene o male oggi, negli stesso Comuni, ma a Palermo, in parte per mantenere questa nuova struttura elefantiaca, in parte per mantenere le spese che il Comune di Palermo non regge più.

Il risultato sarà che, nel giro non di 20 anni, ma di 2 o 3 anni, Comuni come Bagheria, Santa Flavia, Casteldaccia e via continuando diventeranno luoghi di totale degrado.

La situazione è ancora più rischiosa nel Messinese, dove i 108 Comuni non sono nati per caso o per campanilismo, come si cerca di far credere. Si tratta di Comuni in parte alto collinari e montani che sono riusciti, nel corso degli anni, pur fra mille problemi, ad auto-amministrarsi. Senza il Comune alle spalle (e senza i pochi soldi del Comune), queste piccole comunità rischiano di diventare luoghi dell’abbandono.

Lo scenario è un po’ diverso a Catania dove tanti Comuni sono stati praticamente già inglobati dalla ‘patologica’ area metropolitana di Catania che, nel più totale degrado urbanistico ha anticipato ‘patologicamente’ la legge 142. Anche se nella provincia Etnea esistono pure Comuni montani che debbono restare tali, pena l’abbandono.

Semplificando – a prescindere da quello che il Governo regionale proverà a far credere – con l’istituzione delle tre Aree metropolitane, i cittadini dei piccoli Comuni di Palermo, Catania e Messina si troveranno a pagare tasse molto più ‘salate’ (a cominciare dalla Tarsu, che verrà utilizzata per abbattere il debito degli Ato rifiuti) per avere in cambio servizi più scadenti o assenza di servizi.

Andiamo ai 200 Comuni sotto i 5 mila abitanti. Anche in questo caso, l’iniziativa del Governo non sembra particolarmente brillante. Tutto nasce dalla crisi finanziaria. In parte provocata dagli stessi Comuni con le dissennate gestioni degli Ato rifiuti. Non si conosce l’indebitamento dei Comuni siciliani per la gestione di questo servizio. Un indebitamento che, in parte è verso altre amministrazioni pubbliche (l’Amia, ad esempio, vanta crediti verso alcuni Comuni) e, in parte, verso i privati.

In questa storia dei rifiuti c’è, a monte, la ‘furbata’ di alcuni politici e alcuni imprenditori che hanno privatizzato alcune discariche. Il risultato, oggi, è che una parte dell’indebitamento dei Comuni, che avrebbe dovuto essere tra enti pubblici è, invece, tra enti pubblici (i Comuni) verso i privati.

Questi ultimi, diventati gestori di discariche private (che, in alcuni casi, erano pubbliche e sono diventata private sotto l’egida di un’antimafia truffaldina), vantano oggi crediti enormi nei riguardi dei Comuni.

In questi casi, la fusione dei Comuni e il loro accorpamento risponde anche a tale esigenza: fare scomparire i Comuni e tartassare con nuove tasse i cittadini per pagare l’indebitamento degli stessi Comuni con i privati.

Anche in questo caso, non ci sarà alcuna applicazione dell’articolo 15 dello Statuto, ma solo l’obbligo dei Comuni e entrare in questi ‘contenitori’ che, violentando lo Statuto autonomistico siciliano, verranno chiamati “liberi consorzi di Comuni”, ma che di “libero” non avranno alcunché. Si tratta di una truffa linguistica e giuridica.

L’articolo 15 dello Statuto è uno dei più chiari. “Liberi consorzi di Comuni” significa che i Comuni scelgono liberamente come e dove stare. Trattandosi di consorzi tra Comuni, senza strutture e sovrastrutture, non ci possono essere vincoli: e infatti l’articolo 15 non dà alcun vincolo.

In questo caso il Governo vorrebbe iniziare a mettere paletti: “Non più di”, “Non meno di”. Ma dove li hanno letto queste precisazioni? L’articolo 15 dello Statuto lascia liberi i Comuni di autodeterminarsi. Governo e Ars non debbono interferire. Anche se i consorzi saranno 100. E allora? Dovranno essere gli abitanti dei Comuni a scegliere come vivere.

Dov’è, allora, l’inghippo? Questa legge presentata dal Governo non serve per applicare l’articolo 15 dello Statuto ma, al contrario, per travolgerlo. E per spremere meglio i cittadini che, in prima battuta, in pochi anni, dovrebbero pagare i debiti con i titolari delle discariche private con uno spaventoso aumento delle tasse.

Concludendo, al contrario di quanto prevede l’articolo 15 dello Statuto – che dà ai Comuni libertà di autodeterminazione in liberi consorzi – è in atto un tentativo per accentrare i poteri in poche mani, facendo venire meno le specificità di ogni Comune.

Non 200, ma circa 350 Comuni siciliani rischiano di perdere la propria identità storica, culturale e amministrativa. Molti di questi Comuni rischiano il degrado. Forse è arrivato il momento di riflettere prima di sfasciare l’ordinamento comunale. I danni prodotti alle comunità non con l’abolizione delle Province – che ci sono ancora – ma con il sostanziale commissariamento delle stesse Province dovrebbero consigliare una pausa di riflessione.

 


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