Problemi di linguaggio uno, senza patente l'altro. Virgillito junior avrebbe avuto il ruolo simbolico di liquidatore delle società. A tenere le fila sarebbe stato, in sua vece, il genitore. Entrambi «alle dirette dipendenze» dello studio del padre del sindaco di Catania
Padre e figlio «pupi di pezza» nel sistema Pogliese «Se ti vergogni a chiedere soldi, vai a fare i bitcoin»
«Un pupo di pezza». È dalla definizione di Enrico Virgillito che prende il nome l’operazione che oggi ha scoperchiato un’associazione a delinquere finalizzata, secondo quanto ricostruito dall’accusa, a garantire a diversi gruppi imprenditoriali l’evasione di imposte per un giro complessivo superiore ai 220 milioni di euro. Classe 1978, Enrico – che risulta indagato nell’inchiesta – nel collaudato sistema fraudolento avrebbe avuto solo un ruolo di mera facciata. Amministratore e liquidatore di numerose società ma solo come «testa di legno». In realtà, a tenere le fila in sua vece sarebbe stato il padre, Salvatore Virgillito, arrestato perché ritenuto l’anello di congiunzione tra il figlio e i professionisti dello studio di commercialista di Antonio Pogliese, il padre del sindaco di Catania.
Grande utilizzatore di sms, Enrico raramente usa il cellulare per telefonare per via di difficoltà di linguaggio. Una carenza sopperita dal padre che, a sua volta, si appoggia a lui per tutti gli spostamenti non essendo munito di patente. Un rapporto padre-figlio di simbiosi – e di conversazioni fatte interamente in dialetto – che esce dai confini familiari per sconfinare nel mondo degli affari. «Prestanome», come si etichetta lui stesso in una conversazione intercettata, Virgillito junior si sarebbe rivolto al genitore per qualsiasi decisione sulle spettanze inerenti alle diverse società in liquidazione, limitandosi poi solo ad «apporre firme sui documenti». Perché «non sembra avere le necessarie competenze per dialogare di argomenti inerenti la sua carica» nella gestione delle ditte accomunate tutte dall’avere accumulato, negli anni, ingenti debiti erariali nascosti nei bilanci di esercizio dall’amministratore testa di legno con l’obiettivo, come sostengono gli inquirenti, «di sottrarre gli organi sociali alle responsabilità penali, civili e tributarie per la gestione illecita delle società e per consentire alle proprietà di portare avanti le attività attraverso società di nuova costituzione libere da gravosi oneri erariali».
Il compito di schermatura, di «paravento per i reali proprietari delle società», viene ricoperto da Enrico in concomitanza con l’attività di intermediario svolta dallo studio Pogliese da cui avviene la trasmissione delle dichiarazioni fiscali delle diverse società di cui i liquidatori-amministratori sono padre e figlio. Lo scopo è quello di spingere le aziende in quello che il pm definisce «una sorta di limbo fiscale». In pratica, oltre alle figura del liquidatore «meramente simbolica» altro punto di connessione delle società in questione sarebbe stato lo studio di consulenza utilizzato come intermediario che sarebbe stato quello di cui Pogliese era titolare e coordinatore. Tanto che gli inquirenti parlano di «diretta dipendenza dei Virgillito a Pogliese e al suo entourage», spiegando che sarebbe stato il padre dell’ex europarlamentare di Forza Italia a indicare espressamente al duo Virgillito come procedere nel rapportarsi con gli effettivi proprietari delle aziende.
Il pupo – un po’ meno – di pezza sarebbe stato Virgillito senior, che però da Michele Catania – uno dei collaboratori dello studio di commercialista, anche lui sottoposto agli arresti domiciliari – viene definito «scunchiurutu», nel senso di persona poco affidabile. Sarebbe stato lui, comunque, a intrattenere rapporti con gli amministratori di fatto delle società da cui deve ricevere i compensi. Dalle intercettazioni emerge che più volte con questi Salvatore Virgillito si sarebbe presentato, al telefono, come «Virgillito-Pogliese per rimarcare – fa notare il pm – il suo diretto collegamento allo studio, vero epicentro di fatto». Da alcuni episodi ricostruiti nel corso delle indagini, sarebbe emersa la riconoscenza che entrambi mostrano al commercialista perché «ha consentito a Enrico di dedicarsi a un lavoro meno gravoso e meglio remunerato rispetto a quelli svolti in precedenza».
Ruoli e personalità diverse, sarebbe stato lo stesso motore a spingere padre e figlio a far parte del sistema. «Mi deve dare i soldi – dice Salvatore in un dialogo intercettato dentro la macchina del figlio, facendo riferimento a un imprenditore in ritardo con i pagamenti – se no vado da Santapaola e lo faccio chiamare e gli faccio vedere chi è Turi Lambretta». Lo stesso epiteto con cui firma anche alcuni sms che si scambia con il figlio che, affettuosamente, lo chiama «Turiddu beddu (Salvatore bello, ndr)». Le loro discussioni ruotano quasi tutte attorno al denaro che devono ricevere, tra lamentele per le intenzioni di alcuni di abbassare i pagamenti mensili e conti alla mano con una sorta di scadenzario delle somme spettanti. «E però, minchia, tu ti vergogni a domandare soldi – rimprovera il padre al figlio – Altrimenti te ne vai con tuo fratello e vai a fare i bitcoin».