«Non appare neppure concepibile esercitare l’azione penale sulla base della piattaforma indiziaria manchevole e incompleta […] né il tempo trascorso e la mancata individuazione di persone che direttamente possano riferire in ordine alla genesi, alle causali e alle modalità degli omicidi suggeriscono di proseguire negli sforzi esplorativi». È con queste parole che i magistrati Francesco Puleio e Antonino Fanara, a quasi 32 anni dai fatti e dopo il terzo tentativo andato a vuoto, sono tornati a chiedere l’archiviazione dell’indagine sul duplice omicidio di Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta, rispettivamente dirigente e amministratore dell’acciaieria Megara assassinati a colpi d’arma da fuoco il 31 ottobre 1990. Apparentemente destinato a passare alla storia come un cold case, un caso freddo, irrisolto, a chiedere di non fermarsi sono i familiari delle vittime. Sulla scrivania del gip del tribunale di Catania è pervenuta un’istanza di opposizione alla richiesta di archiviazione, basata sul convincimento che esistono strade che è ancora possibile percorrere per arrivare a dare un nome ai responsabili.
La procura, dal canto suo, è di avviso diverso. I pm hanno condensato in una trentina di pagine la storia investigativa seguita all’agguato. Rovetta, manager della società in cui da poco erano entrati Ettore Lonati e Amiato Stabiumi, e Vecchio vennero sorpresi di ritorno a casa, sulla strada che dallo stabilimento in zona Bicocca conduceva alla tangenziale. I periti parlarono di un «commando operante con tecniche quasi militari» che viaggiava su due mezzi, anche se non è chiaro se due auto oppure una vettura e una moto. A fare propendere per la seconda ipotesi fu l’assenza di tracce di pneumatici nel terreno di campagna in cui, a sparatoria in corso, Vecchio deviò la propria Peugeot 305. Una manovra che era valsa a poco: con accanto il cadavere dell’amministratore, Vecchio era stato raggiunto e freddato anche a causa del foramento di due ruote. Su una cosa, invece, gli investigatori sin dal principio non hanno avuto dubbi: bisognava guardare negli ambienti della criminalità organizzata, «i soli in grado nella città di Catania, in quel periodo storico – si legge nella richiesta di archiviazione – di concepire, organizzare ed eseguire un agguato simile».
Di piste ne sono state vagliate diverse, tirando in ballo sia Cosa nostra, nei vertici della famiglia etnea dei Santapaola-Ercolano ma anche quella nissena dei Madonia e i Corleonesi di Totò Riina, che clan autonomi, come gli Sciuto Tigna. L’ultimo tentativo ha riguardato l’iscrizione nel registro degli indagati di otto persone. Tra i quali Nitto Santapaola e diversi esponenti che al tempo occupavano posizioni di vertice nella famiglia e che da collaboratori di giustizia hanno smentito di saperne qualcosa. È il caso di Natale Di Raimondo e di Umberto Di Fazio, entrambi hanno ribadito che, alla luce dei tanti delitti di cui si sono autoaccusati, non avrebbero motivo di negare un eventuale coinvolgimento. A fare i loro nomi, in due circostanze diverse, la prima negli anni Novanta e la seconda nel 2008, era stato Maurizio Avola, il pentito che l’anno scorso ha fatto parlare di sé per la ricostruzione da più parti smentita della strage di via D’Amelio. Avola, che ha detto di avere compiuto a inizio anni Ottanta attentati per imporre il pizzo all’acciaieria, ha indicato il movente dell’omicidio in un interesse diretto della famiglia Ercolano, intenzionata a entrare in società con la Megara. A parlare del boss Pippo Ercolano, cognato di Nitto Santapaola, sono stati diversi collaboratori di giustizia: Giuseppe Pulvirenti, u Malpassotu, specificò che «avevano un interesse economico nell’azienda diverso dall’estorsione». Nella lista degli indagati, tuttavia, non compare nessun Ercolano, neanche Aldo, il figlio di Pippo, che secondo Avola avrebbe comunicato l’esigenza di eliminare Vecchio e Rovetta. Ad aver fatto riferimento a incontri con Ercolano è stata in passato la moglie di Alessandro Rovetta, che ai magistrati parlò del turbamento del marito nel ritrovarsi faccia a faccia con il mafioso.
All’epoca del duplice omicidio la Megara aveva ricevuto un finanziamento di undici miliardi di lire. Per Angelo Siino, l’uomo ribattezzato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ci sarebbe stato un interesse dell’ex presidente della Regione Rino Nicolosi nell’acciaieria, ma l’ipotesi non è mai stata confermata. La tesi del pizzo, invece, è stata avvalorata da figure di spicco, a partire da Bernardo Provenzano. Il boss corleonese, a metà anni Novanta, accennò alla «ferriera» in diversi pizzini. A riceverli furono sia Giovanni Brusca che Luigi Ilardo. Il primo, da poco scarcerato, ai magistrati ha detto di avere saputo dai vertici dei Santapaola-Ercolano che l’assassinio di Vecchio e Rovetta non aveva a che fare con Cosa nostra etnea ma, a differenza di altre occasioni, non gli era stato chiesto di accertare chi fosse stato. «Per questa ragione ritenni che Cosa nostra catanese non aveva interesse ad approfondire la cosa», ha messo a verbale Brusca. Ilardo, invece, è stato indicato come il soggetto che per conto del boss Piddu Madonia, di cui era cugino, avrebbe riscosso il pizzo della Megara. A indicarlo come il responsabile dell’estorsione è stato lo stesso Brusca, ma non solo: negli ambienti criminali, a metà anni Novanta, si era sparsa la voce secondo cui Ilardo aveva omesso di versare le somme – per un totale secondo alcuni di 700 milioni – nelle casse di Cosa nostra. Sono gli anni in cui Ilardo collabora con il colonnello Michele Riccio, confidenze fatte con il nome in codice di fonte Oriente e poi interrotte nel ’96 quando venne ucciso pochi giorni dopo avere formalizzato la volontà di diventare collaboratore di giustizia.
Di estorsioni parla anche Giuseppe Ferone. Collaboratore di giustizia, con un passato interno al gruppo Sciuto, Ferone ha ricondotto il duplice omicidio a un’azione autonoma presa da Carmelo Privitera, fratello del più noto Orazio, e da Rosario Russo, oggi deceduto. I due avrebbero agito nell’ambito di una vicenda in cui troverebbero spazio gli attriti sorti tra i vertici della Megara e i fratelli Carmelo e Francesco Rapisarda, imprenditori di natali libici e titolari di ditte che operavano all’interno dell’acciaieria, e una richiesta di pizzo recapitata con insistenza e diverse telefonate minatorie a Francesco Vecchio. Quest’ultimo, in un’occasione, avrebbe fatto il nome di un soggetto legato alla criminalità organizzata facendo scattare, come reazione, la volontà omicidiaria. Ferone, parlando con Privitera e Russo, avrebbe intuito il loro coinvolgimento e imposto il silenzio a tutti per timore di dover fronteggiare l’ira dei Santapaola-Ercolano. A riguardo Ferone ha detto che Aldo Ercolano gli aveva rivelato che la Megara pagava a Cosa nostra etnea cento milioni all’anno. Sul punto gli imprenditori Lonati e Stabiumi hanno affermato che l’acciaieria non ha mai pagato pizzo e che Rovetta non avrebbe avuto la disponibilità per versare da solo tali cifre. Una ricostruzione simile a quella di Ferone, con riferimento a Orazio Privitera e la volontà di tutelare il proprietario di un terreno adiacente all’acciaieria, è stata fatta più di recente dal collaboratore Francesco Squillaci, ma non ha convinto gli inquirenti.
Nonostante siano decine i soggetti sentiti dai magistrati, il duplice omicidio Vecchio-Rovetta somiglia a un puzzle con diversi pezzi mancanti. Nonostante gli sforzi, il quadro risulta sempre incompleto. E a colorare di mistero i contorni della vicenda è anche quanto accadde il 5 novembre 1991, cinque giorni dopo l’agguato. Alla redazione Ansa di Torino arrivò una rivendicazione della Falange Armata, la sigla che negli anni Novanta fu utilizzata per rivendicare una lunga serie di fatti di sangue, dagli omicidi Lima e Scopelliti ai delitti della Uno bianca, fino alle stragi del ’92 in Sicilia e del ’93 nel Centro e nel Nord-Italia. Chi ci fosse dietro la Falange Armata – la cui ultima firma risale al 2014 quando venne recapitato in carcere a Totò Riina l’invito a tenere chiusa la bocca – non è ancora stato chiarito. Più elementi hanno portato a ricondurre la creazione della sigla nell’ambito della settima divisione del Sismi, il servizio segreto militare. La stessa a cui fu collegata l’operazione Stay behind denominata Gladio. Quella per Vecchio e Rovetta è stata la seconda rivendicazione nella storia della Falange Armata, dopo quella fatta quattro giorni prima del duplice omicidio per dichiarare la paternità dell’uccisione di Umberto Mormile, educatore del carcere di Opera, assassinato nella primavera del ’90. «L’operazione è stata fatta dai nostri operai del carcere di Catania», è parte del messaggio che fu recapitato alla redazione dell’agenzia di stampa per rivendicare l’assassinio all’acciaieria. Il riferimento potrebbe essere alla presenza tra i lavoratori della Megara di soggetti che, sottoposti a detenzione, all’epoca avevano ricevuto l’ammissione al lavoro esterno. Vecchio, da dirigente del personale, aveva deciso di stringere le maglie dei controlli disponendo anche la presenza di una guardia giurata all’ingresso.
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