Omicidio Fragalà, in aula la versione degli imputati «Accusa ingiusta, avete fatto un errore clamoroso»

«Io sono innocente». Non la smette di ripeterlo, Paolo Cocco, davanti ai giudici della prima corte d’assise, dove si sta celebrando il processo per l’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà. Un mese fa a sedere al suo posto davanti ai giudici era stato un altro imputato, Antonino Siragusa, che ha ribadito più volte l’estraneità nell’omicidio proprio di Cocco e di un altro a processo con loro, Francesco Castronovo. «Loro quella sera con noi non c’erano proprio». Versione ripetuta anche oggi in aula. Eppure a parlare per Cocco ci sono anche le intercettazioni agli del processo, in cui lui palesa l’evidente preoccupazione di essere coinvolto nelle indagini sull’omicidio, dopo le dichiarazione del collaboratore Francesco Chiarello. «Per il fatto dell’omicidio può essere che mi vengono a cercare, c’ero pure io». Perché dice questa frase alla moglie? «Perché c’era stato di mezzo già mio suocero, Salvatore Ingrassia, e sapevo che Chiarello non mi poteva vedere. Avevo paura che mi metteva in mezzo, il senso era “vuoi vedere che dice ca c’era puru io?”. Io l’ho detto ingenuamente, sapevo che lui mi voleva rovinare».

Fra Cocco e Chiarello, infatti, non sembra correre buon sangue. «Era una persona che s’annacava troppo, mi infastidiva, mi stuzzicava, ho avuto delle liti con lui – racconta l’imputato in aula -. Attaccavo a mezzanotte al mercato ortofrutticolo, alle tre spesso avevo già finito e me ne andavo nella piazza del borgo. Una sera mi chiese se avevo visto chi gli aveva rubato la macchina, visto che io ero sempre lì di notte, a Borgo Vecchio. Ma io non avevo visto nulla e lui mi accusò di essere io allora il responsabile». E nemmeno con la moglie di lui i rapporti sembrano migliori. La incrocia nella sala colloqui del Pagliarelli, un certo che è andato a trovare il suocero in galera: «Lei mi disse “non ti preoccupare che prima o poi te l’amo a fari paari».

«Sono un ragazzo che scherza con chiunque, mi conosce tutto il quartiere, sono un ragazzo vivace», così si racconta ai giudici di Palermo. Ma tutta la sua allegria sparisce di colpo quando Chiarello inizia a parlare coi magistrati. «Al mercato ortofrutticolo, dove lavoravo, mi avevano detto per scherzare che stavano facendo degli arresti al Borgo, io mi sono spaventato, sapevo già che Chiarello aveva fatto accuse contro di me, per questo ero spaventato. Mi sono sentito accerchiato, umiliato, non capivo, avevo paura. Sentivo che rischiavo per un’accusa ingiusta. Chiarello è un bugiardo, io non ho mai fatto del male a nessuno – continua -. Mi conosco tutti al Borgo, avevo 21 all’epoca, qua è stato fatto un errore clamoroso, è 20 mesi che sono in carcere e solo ora ho la possibilità di dire queste cose». Anche se in realtà il suo esame avrebbe dovuto essere a inizio settembre, ma lui si era rifiutato di parlare.

Sgomento anche quando, nel 2015, sua moglie trova per caso una microspia in cucina, aumentando a dismisura il panico di Cocco. «Non capivamo cos’era, c’erano delle antenne e delle batterie, sembrava una bomba. L’ho fatta vedere a due amici, Domenico Tantillo e Antonio Tarallo, mi hanno detto che era una microspia». Gli stessi che, intercettati, gli chiedono se per caso abbia detto qualcosa di compromettente, parlando magari di qualche omicidio. Perché quella domanda? «Solo perché lo sanno che sono uno vivace, uno che scherza, ho solo detto che le tre persone prese nel 2013 tra cui mio suocero erano innocenti». Dopo Cocco a sedere sul banco è Francesco Arcuri, anche lui estranei al delitto secondo la versione fornita un mese fa da Siragusa. Sono tante comunque le intercettazioni che gli contesta il pubblico ministero, ma puntualmente lui risponde che non ricorda, «sono passati anni ormai, non lo so cosa volevo dire». Frasi del tipo «lui se n’è andato col sangue in bocca» o quella che gli rivolge Abbate, imputato anche lui per l’omicidio Fragalà, «lo prendi il martello? Come ci rompi la testa? Ce la rompi la testa, ci devi ballare di sopra». Che Castronovo minimizza: «Non ricordo, può essere che parlavo di un cane, della testa di un chiodo. O può essere pure che uno scherza, parlo con una persona e gli dico “minchia a chistu l’ammazzari a lignate” ma si tratta di dargli due schiaffi, il palermitano si esprime così».


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