Omicidio Fragalà, fra i testimoni un ex cliente «In carcere mi dicevano “viri comu ci finiu?”»

«Dentro al carcere mi insultavano, mi dicevano che ero cornuto e sbirro, perché mi facevo interrogare dai magistrati». Insulti che, a sentire Onofrio Prestigiacomo, condannato in via definitiva per 416 bis ed ex cliente dell’avvocato Enzo Fragalà, avrebbero reso la sua carcerazione al Pagliarelli piuttosto pesante: «Quando risento queste parole ancora mi devo prendere altre tre pinnole. Io sono malato di nervosismo, immaginatevi chiuso sempre dentro con 50 persone che mi dicono queste cose, che sono uno sbirro, che carcerazione doveva essere?», domanda ai giudici della prima corte d’assise di Palermo, di fronte ai quali si celebra il processo per l’omicidio del penalista. L’uomo, dopo la morte dell’avvocato, ha deciso di collaborare con i magistrati «per chiarire la sua posizione» e spiegare che lui non aveva mai fatto parte della famiglia mafiosa di Bagheria, come invece sosteneva l’accusa all’epoca, e che era stato preso in giro da alcuni “buffoni”. «Solo questo volevo dire, chiarire la mia posizione, non avevo altro da dire sugli altri, io non conoscevo a nessuno – racconta in aula -. E perché mi facevo interrogare per gli altri detenuti ero cornuto e sbirro».

La voce in carcere si sparge in fretta e alla fine è tutto un coro indistinto che lo insulta, a sentire i suoi racconti. Ma tutto parte da due detenuti in particolare, sono «un certo Andrea Carbone e Sergio Flamia – dice -. Mi insogno pure a notti. Questo Flamia lo conoscevo di vista da ragazzino, lo vedevo a Bagheria, ma non ci avevo dato mai confidenza, me lo son ritrovato in carcere e mi ha fatto diventare un fango per tutti quanti». Per Prestigiacomo quella carcerazione diventa insostenibile, fino a che non lo spostano al Rebibbia a Roma. Prima, però, a interrogarlo è anche il pm Nino Di Matteo: «A suo tempo dissi tutto pure a lui», continua il teste. Proprio con l’avvocato Fragalà, che in carcere lo andava a trovare spesso, aveva iniziato a fare le prime ammissioni, prima di diventare collaboratore dopo la sua morte.

«Giuseppe Casella, che era detenuto con me, venuto a sapere della nomina di questo avvocato cercava di convincermi a cambiarlo, sostenendo che lui poteva indurmi a collaborare con la giustizia. Così anche Filippo Bisconti e altre persone detenute, mi dicevano tutti di cambiare avvocato perché era sbirro e che un giorno a furia di farmi interrogare mi avrebbe fatto pentire pure a me», continua a dire in aula. Un appellativo, quello di sbirro, che quindi non sembra essere stato rivolto soltanto a lui in quanto detenuto che si prestava a interrogatori e ammissioni con i magistrati, ma che i suoi compagni di carcerazione avrebbero rivolto anche al penalista che lo difendeva e che gli consigliava proprio di collaborare. «Le stesse persone che mi dicevano che era sbirro l’avvocato Fragalà, alla sua morte mi dicevano “viri comu ci finiu?” e sembravano felici di quello che era accaduto, si rallegravano di questo omicidio – dice Prestigiacomo -. Non è che si misero a ballari, dicevano solo “u viri chi succiriu, u viri?“. Ognuno è padrone di dire quello che vuole delle persone». 


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