Sono poveri, vivono di espedienti o di piccoli lavoretti in nero. «Mangiano poco magari, o si vestono alla Caritas. E quest’anno sono aumentati del 78 per cento». Sono i catanesi che si rivolgono ai centri d’ascolto Caritas, una realtà molto diffusa nel territorio di Catania e provincia. Secondo padre Valerio Di Trapani, direttore della Caritas diocesana etnea, «è un fenomeno che potenzialmente riguarda il 27 per cento delle famiglie catanesi che vivono dei lavori umili, in forte diminuzione». C’è chi fa le pulizie a domicilio, chi il venditore ambulante, chi il posteggiatore abusivo. E se riesce a vivere con poche centinaia di euro al mese «è per via del cosiddetto welfare familiare, l’aiuto reciproco che ci si da all’interno della famiglia, un sistema che qui a Catania è ancora molto forte».
Padre Valerio, i servizi della Caritas sono rivolti, almeno nell’immaginario comune, ai migranti in difficoltà o ai senza fissa dimora. Quest’anno invece sembra che le famiglie catanesi siano aumentate vertiginosamente.
«Se parliamo di situazioni di povertà estrema, che noi misuriamo con gli ingressi all’Help center, è ancora così: la maggioranza è composta da stranieri. Anche se, per la prima volta, la comunità più numerosa è proprio quella italiana, che ha superato la presenza dei rumeni. Le famiglie povere invece sono sempre state italiane nel 99 per cento dei casi. Il parametro di povertà non è il reddito, che è facilmente mascherabile, ma la cosiddetta propensione al consumo che, nel loro caso, è meno della metà rispetto alla media nazionale. Sono queste le famiglie che si rivolgono ai centri d’ascolto Caritas, circa 60 in tutto il territorio della diocesi, un terzo delle parrocchie».
Da dove prendete i dati? Curate voi stessi la statistica?
«I dati sugli ingressi vengono da noi forniti alla Caritas italiana che li elabora con l’Istat e la fondazione Zancan. Noi, a nostra volta, li confrontiamo, in maniera meno scientificamente valida ma certamente più rispondente a quella che è la realtà, con i dati di ogni giorno. Sono numeri indicativi, con una media di 85 visite a settimana al centro di ascolto di via Acquicella da settembre a novembre del 2011. Mentre un aumento si è registrato rispetto al 2010, con 166 persone che non si erano mai rivolte alla Caritas, il 78 per cento in più».
Migranti, senzatetto e in giro per la città. Dopo tutto quello che è successo quest’anno gli sgomberi del palazzo delle poste e del palazzo di cemento, i tanti sbarchi dalla Libia e dagli altri Paesi nordafricani – qual è la situazione dei senza fissa dimora?
«A fine 2011 si conferma che la povertà non è uno stato definito. Se all’inizio dell’anno gli ingressi all’Help center erano di migranti, i dati di chi accede per la prima volta dicono che ora la maggioranza relativa sono italiani e in particolare catanesi. Come controparte c’è da dire che all’Help center per la prima volta sono arrivate, rispetto all’anno precedente, meno persone e questo è dovuto al fatto che ci sono meno immigrati. Catania non è più una meta ambita per l’emigrazione».
Colpa delle crisi? Quanto incide nella vita di un senza fossa dimora e come si sta muovendo la Caritas per gestire questa situazione?
«In realtà è una situazione piuttosto statica, non c’è un grosso aumento del disagio estremo. Il cosiddetto barbone non percepisce la crisi, perché non ha reddito. L’unità di strada Caritas ogni giorno porta un pasto caldo e coperte a una cinquantina di persone. Ci sono nuclei consolidati, come i pankabbestia di piazza Mazzini o i gruppi che vivono in aeroporto o alla stazione, altri che occupano case abbandonate. E non è mai facile reinserirli. Solo per alcuni, come Antonio che da anni viveva in macchina in via Filocomo, siamo riusciti ad avviare un percorso di reinserimento nel corso dell’anno».
La Caritas sembra avere d’occhio la situazione giorno per giorno, ma le istituzioni come reagiscono?
«Da quando c’è l’assessore Pennisi alcuni suggerimenti che abbiamo fornito, come il welfare di prossimità, stanno iniziando ad essere introdotti nei servizi territoriali. E’ un cambio nella filosofia d’intervento, che non si basa solo sui servizi ma anche sulle risorse che la gente ha già. Per esempio un aiuto, quasi a costo zero per la comunità, è quello di intervenire nel riequilibrio delle spese familiari. Oppure un sistema, ampiamente sperimentato dal governo di Lula in Brasile, è quello di fare una sorta di patto con le famiglie che a loro volta si impegnano nell’obbligo di istruzione dei figli. Questo spezza le catene che creano nel futuro situazioni simili a quelle dei genitori».
Che Natale sarà per i migranti? Che Natale sarà per tutti quelli che, anche italiani, chiedono aiuto alla Caritas?
«Per quello che ho visto, nel momento in cui facciamo i conti con l’esiguità delle risorse si riscopre la gioia di condividere. Noi ogni anno organizziamo la festa dei senza niente, nella quale si condivide solo la gioia di stare insieme. Un esempio è una ragazza nigeriana, arrivata cinque mesi fa dopo uno sbarco nel quale ha perso il marito, che ha partorito proprio il 24 dicembre. Una donna che materialmente ha perso tutto, era il volto della felicità».
E per i volontari che Natale sarà?
«Molti di loro passeranno il Natale e le feste qui alla locanda del Samaritano o negli altri centri Caritas. Ma per far funzionare le cose non ci deve essere la logica del servizio, perché crea distanze tra chi dà e chi riceve. Qui tutti devono porsi nell’ottica di dare e ricevere, chi viene da volontario, e chi viene da assistito. Sarà un Natale di gioia».
[Foto di Leandro’s World Tour]
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