Lo chiamavano il Tebano. Perché con lo stratega militare greco che portò alla vittoria Tebe contro Sparta aveva in comune il nome. E forse non solo. Anche Angelo Epaminonda era un capo, un boss. Partito da Catania, negli anni ’70 gestiva la mafia a Milano, pur senza essere un mafioso. Una distinzione a cui pochi hanno badato, ma che lui ha sempre rivendicato: comandava senza mai essere stato punciuto. E così, nel 1984, è diventato anche uno dei primi super pentiti – il primo nel capoluogo meneghino – senza mai essere stato uomo d’onore. Adesso è morto. La notizia è circolata solo in questi giorni, in cui era atteso come testimone al processo per l’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia. Ma pare che il Tebano si sia spento ad aprile, nella località segreta dove viveva dal 2007, dopo la scarcerazione per i 17 omicidi di cui si era autoaccusato.
Epaminonda nasce e trascorre i suoi primi anni di vita tra i vicoli del Borgo, a Catania. Poi la famiglia si trasferisce in Brianza, a Cesano Maderno. Di mezzo ci sono i debiti di gioco del padre, una passione ereditaria per quello che diventerà il re dei night e delle bische milanesi. Dal capoluogo etneo Epaminonda porta con sé parecchi tratti: dal dialetto, mai abbandonato, all’indole strafottente. Lavoratore svogliato e non incline alla diplomazia, il Tebano entra presto nel giro della mala milanese gestita da Francis Turatello, meglio noto come faccia d’angelo. Comincia dal fondo della gerarchia, per poi scalare pian piano tutte le posizioni. Specie dopo l’arresto di Turatello. La vita del Tebano si svolge come in un film sulla mafia americana: vive di notte tra i night, vestito bene dal suo sarto personale, bevendo champagne, passando da una donna all’altra – mentre moglie e figli aspettano a casa – e, soprattutto, tirando cocaina, l’altro pilastro del suo business.
«Ero il padrone della città, contavo più del sindaco», racconta nel libro Io, il tebano. Tenere un basso profilo non faceva per lui. Quando compra una barca da dieci metri, fa dipingere sulla fiancata una scritta lunga tre metri: Il Tebano. «Volevo che anche i pesci mi riconoscessero», racconta. La stessa spacconeria mostrata davanti ai rifiuti. Come quella volta che non vogliono farlo entrare in un nuovo e famoso locale perché è «esaurito», gli dice il buttafuori. «Se sei esaurito fatti ricoverare e chiamami il direttore», è la risposta di Epaminonda.
Ero il padrone della città, contavo più del sindaco
Come tutti i capi, anche Epaminonda aveva un braccio destro: Jimmy Miano, anche lui catanese, morto nel 2005. Era lui il vero tramite con Cosa nostra, ed era lui che gestiva il clan dei Cursoti milanesi. Gli emigrati dopo la guerra persa nel capoluogo etneo contro i Santapaola, per il cui capo, Nitto, Epaminonda stesso non provava alcuna simpatia. Lo considerava «un pallone gonfiato». Più o meno lo stesso giudizio riservato ai palermitani, e che ha spesso provocato il risentimento di Totò Riina che non voleva rassegnarsi allo strapotere di questi catanesi emigrati. A Milano, però, quella banda di uomini provenienti dalla Sicilia orientale era conosciuta come gli indiani. «Un manipolo di boia che ammazzava a cottimo», secondo la descrizione di Epaminonda. Anche per un parcheggio soffiato. Il gruppo gestito da Miano, braccio armato del Tebano pur nella loro autonomia. Una dinamica particolare, ma che per i due boss ha funzionato per anni.
Almeno fino al pentimento di Epaminonda e al maxiprocesso – il primo a Milano – nato dalle sue dichiarazioni, con 115 imputati. Svolta che i vertici degli indiani non hanno mai preso bene. «Plotone d’esecuzione siete», sono state le ultime parole pubbliche di Jimmy Miano ai giudici che lo hanno condannato nel 1994 a quasi trent’anni, da cui sapeva non sarebbe uscito vivo. Ancora prima, nel 1987, durante il maxiprocesso, era stato il fratello Nuccio Miano a sparare con una pistola in aula contro due nemici dietro le sbarre di fronte alle sue. In mezzo, due carabinieri che sono rimasti feriti.
L’unico a non essersi pentito della collaborazione con la giustizia è stato invece Epaminonda. O almeno non l’ha mai detto, pur riferendosi al suo passato come l’attività di un «onorato criminale». L’unico rimpianto, come racconta lui stesso ai giudici, sono alcuni chili di eroina spacciati. «Dietro ognuna di quelle vedevo i ragazzi che l’avevano comprata per bucarsi», dice ai giudici piangendo. Una commozione che non lo sfiora invece mentre parla dei 17 omicidi in cui è stato coinvolto direttamente e dei quasi 50 che ha ricostruito per i magistrati. Una carriera che termina nel 1984 in un appartamento di via Silva, a Milano. Per arrestare il boss che dormiva con la pistola sotto al cuscino le forze dell’ordine usano un trucco: scoprono la sua parola d’ordine, in dialetto catanese, e la fanno pronunciare a un agente che raccoglierà i complimenti di un Tebano in canottiera e disarmato.
È lui stesso a raccontare la sua vita dopo il pentimento nel libro con la sua biografia: «E adesso? Sono alla ricerca di me stesso, ma credo che non mi ritroverò più. Mi faccio schifo. Com’è diversa la vita da quando ero il re delle bische. La cosiddetta gente perbene mi rispettava. Nel mio libro paga, una volta, c’erano giudici, carabinieri, poliziotti e trattavo affari con industriali e aristocratici. Tutti sedevano alla mia tavola e bevevano i miei liquori. Da quando ho parlato, e cerco di offrire da bere a qualcuno, quello mi risponde: “No, grazie ho già bevuto”. Anche se è un giudice o un poliziotto questo rifiuto mi umilia. Solo i ragazzi della mia banda possono dire che sono un infame. Se Jimmy Miano mi si parasse davanti con una pistola in pugno, non farei una piega. La mia vita gli appartiene, che se la prenda. Mi auguro che basti a ripagarlo del male che gli ho fatto».
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