La macchina piena di regali e le borse piene di soldi. Il potere di Antonello Montante si sarebbe poggiato anche su questo. Una generosità, mai gratuita,che nel corso dei decenni gli avrebbe permesso di scalare le gerarchie sociali e istituzionali, forte di un passepartout – il denaro – che sarebbe finito nelle mani più diverse: politici, funzionari, imprenditori. Forse anche mafiosi. Gli stessi che, a detta di alcuni pentiti, avrebbero agevolato la fase iniziale della sua carriera. Da Serradifalco – il piccolo centro del Nisseno di cui è originario, così come i boss Paolino e Vincenzo Arnone – al resto del Paese e oltre, il 56enne era riuscito a imporre l’immagine di sé da vate del successo basato sulla legalità. Dietro però ci sarebbe stato un autentico bluff che la giudice Graziella Luparello ha descritto nelle oltre 1700 pagine della sentenza che ha condannato Montante a 14 anni per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistema informatico.
Su questa ingente disponibilità di contanti ora la procura di Caltanissetta ha deciso di volerci vedere chiaro, con un nuovo fascicolo d’indagine – il terzo, se si considerano quelli ancora aperti per concorso esterno in associazione mafiosa e finanziamento illecito ai partiti – in cui si ipotizza il reato di riciclaggio. Il sospetto dei magistrati, che poggia su quanto già emerso in precedenti indagini seppure concluse con l’archiviazione, è che Montante abbia goduto di fondi neri, la cui creazione sarebbe da ricercare anche tra le pieghe dei bilanci delle sue società. Il materiale da cui partono gli inquirenti – e per buona parte riportato nelle carte dell’inchiesta sull’associazione a delinquere – è costituito da dichiarazioni di collaboratori di giustizia e persone che a vario titolo sono state vicine all’imprenditore, ma anche da accertamenti tecnici compiuti dagli investigatori. Nonostante «il sistematico boicottaggio» che avrebbe messo in atto dall’ex paladino dell’antimafia e il contributo dato da quegli esponenti delle istituzioni che avrebbero operato per evitare che gli scheletri potessero uscire dall’armadio.
Tra gli aspetti al vaglio ci sono, per esempio, le differenze tra i debiti iscritti nella contabilità delle società di Montante nei confronti dei fornitori e le relative poste trovate nelle scritture contabili degli stessi. A tal proposito, a inizio anni Duemila, nel periodo in cui erano in corso i lavori per la realizzazione dei nuovi uffici della Msa – la principale società di Montante specializzata nella produzione di ammortizzatori – sarebbe successa una cosa curiosa. A raccontarlo agli inquirenti è una dipendente: «Montante in diverse occasioni, dopo che si erano effettuati i pagamenti ai fornitori, mi aveva preannunciato una loro visita in azienda per portare buste a lui destinate», racconta. Previsione che si sarebbe rivelata esatta. «Puntualmente – continua – vennero in azienda per consegnarmi le buste e ho potuto verificare che al loro interno vi fossero somme di denaro». Quando nel 2006 si viene a sapere di un’indagine sui bilanci di Msa, Montante avrebbe cercato di regolarizzare la contabilità della cassa, in quel momento sproporzionatamente alta, con una «fittizia distribuzione degli utili a mezzo di una falsa delibera artatamente retrodatata».
L’uso di pagare dividendi a se stesso, tramite denaro che risultava uscire dalla cassa contanti di Msa, ha portato nel 2005 Montante a incamerare 144mila euro. «Da un punto di vista prettamente formale, la distribuzione dei dividendi societari attraverso la cassa contanti rappresenta una circostanza non comune nella prassi aziendale», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare dell’operazione Double Face. Come giustificativi per quelle uscite sono state trovate soltanto ricevute di pagamento sottoscritte dallo stesso Montante, documenti che da soli «non possono essere idonei a comprovare l’effettiva uscita di risorse finanziarie dalle casse di Msa». Il timore, dunque, è che quei soldi possano avere avuto una diversa provenienza ed essere stati ripuliti tramite un’operazione societaria. La stessa che l’anno successivo portò a una distribuzione di dividendi per 200mila euro, di cui 192mila al socio Montante. Sotto la lente d’ingrandimento ci sono anche le royalties pagate da società dell’imprenditore ad altre a lui riconducibili per l’uso del marchio Gimon. Registrato a fine anni Ottanta dal padre di Montante, lo stesso, a fine 2001, viene ceduto al figlio per un prezzo di venti milioni di lire. Valore che nel giro di due anni lievita – per valutazione esclusiva dello stesso Montante – a un milione e ottocentomila euro.
Resta da chiedersi questi soldi per cosa siano stati utilizzati. Secondo l’ex esponente di Cosa nostra Dario Di Francesco, passato a collaborare con la giustizia nel 2014, Montante, negli anni in cui ancora Di Francesco non si era pentito, avrebbe pensato di foraggiarne la famiglia a patto che il mafioso facesse dichiarazioni contro l’allora direttore dell’Asi di Caltanissetta. I soldi, tuttavia, sarebbero serviti anche per oliare i rapporti anche in circostanze più comuni. C’è chi fa riferimento ad auto piene di regali da distribuire per corrompere. Racconti che di fatto ricalcano un’annotazione del Ros dei carabinieri di Genova del 1992, anno in cui Montante viene arrestato insieme al padre con l’accusa di reati contro la pubblica amministrazione. «Fonte informativa di certa affidabilità – riportavano i militari – ha riferito che Montante, in occasione delle festività natalizie, ogni anno è solito portarsi in Palermo con un furgone carico di doni che distribuisce negli uflici della Regione Siciliana».
Ma a viaggiare sulle auto sarebbero state anche mazzette di grosso taglio. Una di queste borse, secondo Michele Trubia, il presidente del tennis club di Caltanissetta dove Montante avrebbe curato diversi rapporti con figure istituzionali, sarebbe finita nelle mani di Totò Cuffaro. Era il 2001 e mancava poco alle elezioni regionali, da cui sarebbe uscito vincitore proprio il politico di Raffadali. Il cui successo potrebbe essere stato agevolato anche da quel finanziamento occulto da 800 milioni di lire che, a detta di Trubia, Montante avrebbe rivendicato. L’imprenditore di Serradifalco, secondo l’ex presidente di Confindustria Giovani Marco Venturi, poi divenuto principale accusatore di Montante, si sarebbe vantato più volte «pagare la campagna elettorale a tutti». Sempre nel 2001, dopo l’estate, un’altra borsa, simile a quella usata dai medici, avrebbe trovato posto sotto un letto del Jolly Hotel di largo Augusto a Milano. A piazzarla lì sarebbe stato proprio Montante che, dopo essersi reso conto che parte del contenuto era stato visto dal suo accompagnatore, avrebbe spiegato che quei soldi dovevano andare alla figlia di Carmelo Patti. L’imprenditore originario di Castelvetrano ritenuto in tempi recenti vicino al boss Matteo Messina Denaro e a cui la giustizia l’anno scorso, dopo la morte, ha confiscato un patrimonio valutato in oltre un miliardo di euro.
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