Dieci e venticinque, Ad Est, L'Isola e Ctzen. Giornali diversi tra loro, accomunati dalla giovane età e dalla voglia di raccontare realtà spesso difficili. Tra difficoltà quotidiane e piccole vittorie, si sono confrontati nell'ultima giornata del Festival del giornalismo di Modica
Modica, giovani cronisti a confronto Gli ostacoli? La crisi, la mafia e certi colleghi
Giovani e giornalismo, un tema inevitabile per un festival come quello di Modica. L’ultima giornata dell’evento che per quattro giorni ha riunito appassionati e addetti ai lavori del mondo dei media nella cittadina barocca ha affrontato tra gli altri un argomento di fortissima attualità: l’approccio con un mestiere che vive una crisi senza precedenti, in un mercato nel quale sembra non esserci spazio per realtà editoriali anche piccole. A offrire una panoramica a tutto tondo di chi ha provato a investire nel settore – in tempo, impegno e professionalità – quattro realtà profondamente diverse tra loro.
«Il nostro punto focale è Bologna, ma ci allarghiamo a tematiche più ampie, dalla lotta contro il Muos alle iniziative di sostegno a Tele Jato», spiega Valeria Grimaldi, redattrice di Dieci e venticinque, giornale bolognese nato fuori dal reticolato dall’università, ma legato a questo mondo dai suoi giovani redattori. Un nucleo giovane – nato grazie alla spinta de I Siciliani giovani – composto da molti fuorisede di origini meridionali. Ma il legame con la città è forte, già a partire dal nome della testata: «Siamo tanti orologi fermi alle 10.25 di quel 2 agosto 1980», l’ora della strage alla stazione ferroviaria del capoluogo emiliano.
«Abbiamo iniziato a fare antimafia vera, infilandoci negli uffici tecnici, facendo saltare
affari per quattro milioni e mezzo di euro». Gaetano Alessi è l’anima dell’agrigentino Ad Est. Nel feudo dell’ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro, Raffadali, iniziano una serie di inchieste che vanno dalla gestione dei rifiuti alle antenne e ai danni dell’elettromagnetismo. Quella di Ad Est la descrive come una scommessa: «Dopo dieci anni quel piccolo giornale ha raggiunto una quarantina di collaboratori e quel politico che sembrava così potente adesso è in carcere». Un giornale nato in un periodo difficile per la provincia di Agrigento, durante la quale «era difficile capire cosa volevamo fare».
Alla base de L’Isola, quindicinale trapanese, «non c’era nessun ragionamento economico né editoriale», spiega uno dei suoi fondatori, Giuseppe Pipitone, che oggi è corrispondente de Il fatto quotidiano. «L’esempio de L’Isola mi ha insegnato che in Sicilia c’è fame d’informazione». Anche questo un successo inaspettato, con i primi tre numeri andati a ruba ad Alcamo, anche se a comprare le copie non erano parenti e amici, ma quanti volevano toglierne dalla circolazione il maggior numero.
E poi noi. Ctzen, «giornale formato da un gruppo che aveva alle spalle l’esperienza del magazine universitario Step1 e che ha deciso di raccontare la città da un punto di vista diverso da quello al quale i cittadini erano abituati», descrive il direttore Claudia Campese.
Le difficoltà, per tutte le realtà, non mancano. Dal senso di «precarietà, in una città complessa come Catania», descritto da Campese, alla classica domanda «Ma cu tu fici fari» che – descrive Gaetano Alessi – ad un certo punto diventa «Ma cu mu fici fari». I problemi organizzativi di un gruppo di studenti fuorisede, costretti a conciliare le proprie passioni con le scadenze inevitabili della vita universitaria. E poi le pressioni, come spiega Pipitone, quelle che giungono inevitabili quando si racconta il territorio. «La Sicilia è abituata a un giornalismo di ricatto», riassume. Non si dà una notizia senza un secondo fine, il tentativo di ottenere qualcosa. E i problemi nascono quando lo schema si ribalta. O meglio, torna alla normalità.
La questione si complica quando le dinamiche già complesse di realtà del genere si intrecciano con chi quel terreno di gioco lo conosce già: la concorrenza. «I giornali locali – afferma Valeria Grimaldi – non vedono di buon occhio le realtà piccole che s’inseriscono al meglio in determinati settori». Secondo Claudia Campese, sono due le fasi che accompagnano la nascita di un nuovo giornale. Il fastidio, prima, e poi l’indifferenza: «Se non se ne parla, significa che non esiste», spiega utilizzando al contrario una delle più famose massime di Oscar Wilde. Il tutto accentuato da quella pecca che è la giovane età. Nell’Agrigentino la situazione non è di certo più facile: «I rapporti con la stampa locale? Pessimi, per usare un eufemismo», descrive Alessi. Che non nasconde un risentimento nei confronti dei colleghi: «La cosa che ci ha fatto più male è stato l’isolamento. Adesso siamo rispettati – continua – e riceviamo gli inviti alle cene della stampa provinciale». Inviti puntualmente rifiutati. Ma qualche vantaggio, in un panorama informativo appiattito, c’è. «E’ più facile fare informazione qui – dice Giuseppe Pipitone – perché nessuno racconta la Sicilia».
Per Riccardo Orioles, fondatore de I Siciliani giovani, la soluzione è nella rete. «I giovani non sopravviveranno. Nessuno di voi verrà assunto – afferma – Sono tutte storie perdenti». Lo storico collaboratore di Pippo Fava è netto ma la sua visione non è condivisa dai partecipanti, che – come noi – sostengono un’idea di rete che nasca dopo una maturazione dei singoli, attraverso l’esperienza. Un percorso durante il quale sicuramente le strade si intrecceranno più o meno strettamente con altre realtà.