Cronaca

Le parole della mamma che ha ucciso la figlia: «Non volevo soffrisse come me, ho pensato di toglierci la vita insieme»

«Sentivo che la mia vita era finita. Ero entrata in un tunnel in cui vedevo tutto nero. Pensavo al suicidio e mi sono chiesta: “Ma mia figlia con chi resta?“. La vedevo soffrire e ho creduto che, forse, sarebbe stato meglio che tutte e due ci togliessimo la vita insieme». Si dichiara colpevole Martina Patti, la 24enne imputata per avere ucciso la figlia di quattro anni Elena Del Pozzo, a Mascalucia nel giugno del 2022, e per averne occultato il cadavere, dopo avere inscenato il rapimento da parte di un commando armato. Aveva già reso delle dichiarazioni spontanee durante una precedente udienza del processo, ma oggi ha deciso di sottoporsi all’interrogatorio. «Una scelta sofferta e a lungo valutata», ci tiene a precisare l’avvocato Tommaso Tamburino che la difende insieme al collega Gabriele Celesti. Poco più di due ore, dense di racconti, di dolorosi ricordi, di lacrime. È la prima volta che parla di suicidio. «Non stavo bene e volevo togliermi la vita», ribadisce Patti che, proprio alcuni giorni prima aveva cercato online informazioni sulle conseguenze di bere la candeggina.

L’«accumulo di cose negative» dietro l’infanticidio

«Ho temuto che mia figlia, che era la mia vita, iniziasse a soffrire come me – continua la 24enne tentando di spiegare i motivi dietro al suo gesto rispondendo alle domande dei pubblici ministeri e degli avvocati delle parti – Mi faceva domande a cui non sapevo rispondere: “Perché papà non è più con noi? Perché non ci vuole più bene?”». A portare Martina Patti dentro quel tunnel buio, come lei stessa ha dichiarato, sarebbero state «tante cose negative che erano successe, un accumulo»: la fine della relazione con il padre di sua figlia, la crisi con un ragazzo che da poco aveva iniziato a frequentare e anche la bocciatura a un esame all’Università. «Mi sentivo un fallimento in tutto. Adesso – ha aggiunto – sono ancora incredula e non mi capacito di quello che ho fatto, ma non c’è un momento in cui non ci pensi. È una cosa che non si può perdonare e chiedere scusa non serve. So – continua con la voce rotta dal pianto – che come soffro io, soffrono anche suo padre e i suoi nonni».

La ricostruzione del giorno del delitto

Martina Patti inizia il suo racconto del 13 giugno del 2022 dal momento in cui suona la sveglia a casa dei suoi genitori. «Esco e vado a prendere dei libri per studiare nell’appartamento a Mascalucia dove non vivevo più – prosegue le 24enne – Lì mi sentivo sola, quella casa era piena di ricordi belli e brutti». Si cambia e scende per andare a fare jogging. «In giardino, vedo la casetta degli attrezzi di mio zio. Ricordo di avere preso una pala e un altro strumento simile e di averli messi in macchina». Porta gli attrezzi in uno slargo non lontano e va a correre. «Ho notato che erano a vista e li ho nascosti». Finita l’attività fisica, pranza con la madre. Elena è al grest dove l’hanno accompagnata i familiari del padre a casa dei quali aveva dormito la notte precedente. Mentre pranza, riceve una chiamata da una collega dell’università che la informa che sono stati pubblicati i risultati di un esame: «Non lo avevo passato. Mi metto a piangere perché per me era un ennesimo fallimento». Intanto, è già ora di andare a prendere la figlia. «Ci corriamo incontro e ci abbracciamo – dice piangendo – Durante il tragitto la vedevo strana: “Mamma, sono arrabbiata. Non ho dormito con papà perché c’era la sua fidanzata. Non mi vuole più bene, non ci vuole più bene”», le avrebbe detto la bambina angustiata. Con la promessa di portarla a giocare in una ludoteca il pomeriggio, tornano a casa. La bimba mangia un budino e guarda i cartoni animati mentre lei stira. «La guardavo e pensavo a quello che mi aveva detto: non vedevo via d’uscita alla sofferenza mia e sua». Nell’appartamento restano per circa un’ora e mezza. Poi escono.

«Ho scavato la fossa con le mani»

«Mi sono fermata, a un certo punto, sulle scale – continua il racconto di Patti – Sono tornata in casa e sono entrata in cucina; velocemente, ho preso un coltello e dei sacchetti di plastica e li ho messi nella borsa. Ero confusa». Salgono in auto, quando arriva davanti allo slargo dove aveva lasciato gli utensili, scendono. «L’ho presa in braccio e siamo arrivate in quel terreno incolto. Ho scavato la fossa con le mani – dichiara la donna – I sacchi di plastica (quelli dentro cui il cadavere è stato ritrovato, ndr) li ho portati con me ma non so se li ho usati. Ricordo di averla colpita ma non se le ho fatto del male. Lei urlava, poi l’ho chiamata per nome ma non mi rispondeva. Il coltello l’ho lanciato per disperazione. Improvvisamente, mi ricordo del sangue e che non c’era nessuno accanto a me». A questo punto, la 24enne torna a casa e si lava. «Ho pensato – aggiunge – che se avessi fatto la stessa cosa, non ci avrebbero mai trovate». Da qui iniziano le confuse telefonate all’ex e al padre in cui riesce solo a piangere e urlare il nome di sua figlia.

«Mi sono resa conto di avere ucciso mia figlia»

«Durante il tragitto da casa mia verso quella dei miei genitori mi sono resa conto di avere ucciso la bambina, la persona che amavo di più al mondo, e di essere sola. Non mi capacitavo di come fosse successo – dichiara la donna – Ho pensato: “Ora come glielo devo dire?”, avevo paura». Così, in quella decina di minuti di strada in auto, Patti costruire il finto rapimento. «Mi è venuto in mente – aggiunge – di collegare il rapimento a ciò che era successo, qualche mese prima, al mio ex». Un biglietto di minacce recapitato nella buca delle lettere legato a una rapina per cui Alessandro Del Pozzo era stato accusato e poi assolto. La sceneggiata del rapimento viene ribadita in caserma dove verrà smentita dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza. «Quando mi chiedevano di raccontare cosa fosse successo davvero – ammette – dicevo di lasciarmi stare perché avevo mal di testa. Dentro di me soffrivo del fatto di non potere esprimere quello che realmente era accaduto». Solo in mattinata arriverà la confessione al padre: «Elena non c’è più. Sono stata io. Non mi vorrà bene più nessuno»”.

«Mia figlia era la mia vita»

«Ho amato questa bambina fin dal primo momento, da quando ho scoperto di essere incinta. Era la mia vita», dice Martina Patti che, durante il suo interrogatorio, ha raccontato di essere stata sempre lei a prendersene cura, a portarla dal pediatra, a ricoverarsi in ospedale con lei per un’otite, a pensare a tutto quello di cui aveva bisogno. «Senza di lei non andavo da nessuna parte, solo all’università – aggiunge – ma mi informavo continuamente. Ero una mamma-amica: giocavo sempre insieme a lei e spesso la tenevo in braccio anche mentre facevo le faccende di casa o cucinavo. Dormivamo pure insieme», aggiunge la donna. «In carcere non faccio nulla – dice facendo accenno alla sua vita dietro le sbarre – Guardo le foto di mia figlia e soffro. Non riesco a fare nient’altro». Finora, la giovane donna non ha mai preso parte a nessuna attività e ha pure abbandonato gli studi universitari.

Il «fallimento» del rapporto con il padre della bambina

«C’erano sempre litigi con Alessandro e non potevo parlarne nemmeno con i miei genitori perché non lo accettavano. Mi ero chiusa in me stessa». Un rapporto turbolento in cui ci sarebbero stati anche diversi episodi di violenza verbale e fisica. «Mi urlava, mi alzava le mani, mi ha dato schiaffi e anche colpi di manganello sulle ginocchia. Sfinita da tutto questo – aggiunge – l’ho anche denunciato». Una querela che, poco dopo, viene ritirata. «Era pur sempre il padre di mia figlia e poi sia lui che i suoi continuavano a spingermi a farlo perché lui aveva già problemi con la giustizia». Una relazione che Del Pozzo decide interrompere definitivamente nell’aprile del 2022. «Ero consapevole che era meglio se finiva – ammette Patti – ma lo vedevo come un fallimento per quanto avevo investito per creare questa famiglia, mettendomi contro i miei genitori e privandomi di tante cose». Dal gruppo di amiche alla presenza sui social.

«Ho capito che il problema è la bambina»

Ed è proprio dal ritorno sui sociaI che, i primi di maggio, Martina Patti ritrova su Instagram un vecchio amico, Francesco Nicosia. «Ci siamo incontrati, e abbiamo iniziato a uscire insieme – racconta – Mi piaceva perché mi rassicurava, mi dava le attenzioni che non avevo mai avuto». Ai loro appuntamenti, qualche volta, c’è anche la bambina. «Lui una sera è venuto a casa a portare delle caramelle per Elena che era felice e gli ha chiesto di restare per guardare insieme la tv» ricorda la donna. Improvvisamente, nelle ultime settimane prima dell’infanticidio, qualcosa cambia. «Era freddo e distante con me – ricostruire Patti – Già vedevo un altro fallimento e volevo capire quale fosse il problema, ho chiesto se dipendesse dalla bambina ma lui mi ha sempre negato tranquillizzandomi». Il giorno prima del delitto i due si scambiano moltissimi messaggi. A iniziare la conversazione è Martina Patti: «Ho capito che il problema è la bambina. Non lei, però il contesto». Nicosia risponde che non c’è niente da capire: «Ho sbagliato a non pensarci prima. Quella cosa che uscivamo solo noi non mi faceva pensare a questa situazione. Ma più andiamo avanti e più il peso aumenta». 

Marta Silvestre

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