Marie che crede agli angeli

Non ho avuto una vita facile, e forse per colpa del mio passato non l’avrò mai neanche in futuro”. Marie parla abbassando il tono della voce. Prima ancora di sentirsi rivolgere la domanda, ha già puntato lo sguardo dinanzi a sé, verso il vuoto. Ha 25 anni, davanti a lei le prospettive di chi ha smesso troppo presto di credere nelle favole. Una stretta coda alta le raccoglie indietro foltissimi capelli neri, ricci. Il suo bel viso fresco è truccato appena da un lucido rosa sulle labbra e da un ombretto perlato chiaro. Gli occhi grandi, color nocciola, sono svegli e attenti. Lo sguardo, nonostante tutto, è dolce e sereno.
 
Marie è forte. Nigeriana, è arrivata in Italia 15 anni fa, insieme alla madre e alle due sorelline (all’epoca di 5 e 7 anni). Dovevano raggiungere il padre, arrivato qualche mese prima in cerca di un lavoro. Di certo, nessuno allora mai immaginato che le bambine avrebbero dovuto prostituirsi per vivere. Ci sediano al tavolo di un bar e Marie comincia a raccontare i suoi primi 10 anni in Sicilia: l’inserimento a scuola, una nuova lingua da apprendere, il padre che faceva il magazziniere e una vita senza gravi problemi economici. “Non sono stati anni difficilissimi e, nonostante l’enorme differenza tra l’Italia e la Nigeria, stare qui mi piaceva. Ci stavo bene”.
 
Una fresca sera di primavera però il padre non tornò dal lavoro. Era morto in un incidente sulla circonvallazione di Catania, a bordo del suo fragile scooter. Marie racconta e non vorrebbe piangere. Rovista dentro un’ ampia borsa, tira fuori un portafogli e mi mostra la foto di un uomo alto, sorridente, abbracciato al collo e alla vita da tre ragazzine con abiti colorati e capelli voluminosi. “Eravamo noi, la mia famiglia”. La madre andava di tanto in tanto a fare le pulizie, ma quello che guadagnava non bastava a sfamare tre figlie ormai adolescenti, che andavano ancora a scuola.
 
A sette mesi dalla morte del padre, con l’assicurazione che non pagava, la madre chiese aiuto. E in cambio diede Marie. “Era quasi ora di cena e mia madre, rientrando in casa senza salutare, mi prese per il polso e mi portò di fronte alla porta di ingresso. A bassa voce, per non farsi sentire dalle mie sorelle, mi disse: «Adesso la famiglia è tutta sulle tue spalle». Poi cominciò a parlarmi di cose strane: l’importanza dei soldi, quei lavori che permettono di guadagnarne tanti. Mi diede un bacio sulla testa e, così come mi trovavo in casa, mi accompagnò fino all’auto posteggiata di fronte”.
 
Marie salì a bordo di una vecchia Fiat bianca, molto sporca, probabilmente utilizzata per trasporti di materiali edili. Non riusciva ancora a capire perché si trovasse lì dentro, ma sentì un brivido di paura quando la madre dell’esterno, in lacrime, chiuse lo sportello. “Rimasi zitta senza muovermi, evitando persino di fare rumore con il fiato. La macchina partì. Guardandomi indietro l’unica cosa che mi chiedevo era se sarei più ritornata a casa”. Due italiani adulti intorno alla cinquantina, con una donna quarantenne anche lei nigeriana, seduta sui sedili posteriori accanto a Marie, la stavano portando in un posto sconosciuto.
 
Dopo qualche minuto di silenzio l’uomo che non guidava si voltò indietro verso di me squadrandomi da testa a piedi, intimidendomi tremendamente. Lo vidi solo allora per la prima volta in faccia, e rigirandosi in avanti disse con ironia: «Sei spaventata? Tranquilla che non ti mangiamo, fai quello che ti diciamo che non avremo problemi e ci troveremo bene». Queste parole e quel tono mi intimorirono ancora di più”. Quello per la ragazza fu il suo primo impiego. Si ritrovò coinvolta nel commercio del corpo, del suo corpo.
 
Adesso non vuole più parlarne. Ma dopo 5 anni Marie ne è uscita. Lei dice che ha sempre creduto agli angeli, ma in quel lungo periodo aveva dimenticato che esistessero. Finché, proprio quando quella vita aveva finito per sembrarle normale, qualcuno la salvò. Gli investigatori della Squadra Mobile di Catania, nel settembre 2007, riuscirono a impedire che un gruppo di ragazze nigeriane, reclutate nel loro Paese con la promessa di un lavoro onesto, fossero avviate alla prostituzione a Catania. Risalirono agli affari di una 48enne nigeriana che avrebbe fatto da ponte con le organizzazioni che si occupavano di far arrivare le donne illegalmente in Italia, per farle prostituire nel centro storico o lungo la Catania-Gela. E tirarono fuori da quel giro anche Marie.
 
Una delle strategie vincenti, per combattere la prostituzione e lo sfruttamento delle donne straniere, è basata sulla valorizzazione delle associazioni, che aiutano le prostitute clandestine a regolarizzare la loro posizione in Italia. In Sicilia, e in particolare a Palermo, Catania e Messina, esistono centri di accoglienza dove le ragazze possono recarsi per un controllo medico. Esistono unità mobili da strada, che distribuiscono materiale sanitario, e centri di protezione sociale, dove le ragazze che si sono ribellate agli sfruttatori possono avere una residenza e cercare di ottenere un permesso di soggiorno e un lavoro.
 
L’articolo 18 della legge sull’immigrazione 40/98 garantisce, infatti, una protezione sociale per le ex prostitute decise ad avvalersi del sostegno di associazioni per il recupero e la riqualificazione professionale. Marie fu aiutata ad uscirne e a trovare un lavoro dignitoso. Adesso lavora come segretaria e assistente in uno studio dentistico in un paesino nella zona etnea, dove si è trasferita dopo la morte della madre insieme alle due sorelle. Ora si aiutano a vicenda per le spese di un piccolo appartamento preso in affitto.
 
La Sicilia è uno dei luoghi privilegiati, per la sua particolare posizione al centro del Mediterraneo, per i flussi migratori provenienti dalla Nigeria, da cui ogni anno partono centinaia di ragazze destinate a prostituirsi. A Palermo quasi il 51% delle prostitute sono nigeriane. Le italiane costituiscono poco più del 23%, mentre le le tunisine rappresentano circa l’8%.


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